Il Molise

Montenero Valcocchiara

By 14 Settembre 2007 Settembre 12th, 2017 No Comments

da Franco Valente, Luoghi antichi della provincia di Isernia, Bari 2003

(Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons)

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Il paese in origine si chiamava Mala Cocclaria e doveva avere una certa importanza intorno al 1039 quando fu sottratto all’abbazia di S. Vincenzo al Volturno dai feroci conti Borrello. Poi nel 1045 fu restituito ai monaci e nessuna notizia si ha fino al 12 marzo 1166 quando un certo Jonathas de Mala Cuclaria è presente a Belmonte del Sannio per la sottoscrizione di una donazione fatta con il consenso di Oderisius filius Borrelli.
La prima notizia concreta sulla esistenza di una chiesa e della relativa parrocchia (che una volta si chiamava plebs) si ricava da una pergamena che papa Lucio III inviava nel 1182 a Rainaldo, vescovo di Isernia, dove per la prima volta appare il nome attuale del paese: in Monte Nigro plebem S. Mariae. Si tratta certamente dell’attuale S. Maria di Loreto, trasformata ripetutamente nel tempo. Ci si arriva facilmente se si entra al paese dalla parte di sopra, come probabilmente si faceva una volta seguendo la strada che passa davanti alla cappella rurale della Madonna Incoronata. Superato un arco che era una delle porte del nucleo più antico, si ha l’impressione di essere il protagonista di una scenografica apparizione per ipotetici spettatori che aspettano in basso in un accogliente sagrato tutto in pietra. Una serie di articolati piani inclinati, parapetti e gradonate che recano segni decorativi del XVIII secolo, con sedili in pietra e volute barocche, fanno da contorno alla facciata della chiesa di S. Maria di Loreto.
Oltre un bel portale del 1782, ha un poderoso campanile che sembra fatto a posta per controllare l’ingresso al suggestivo loggiato che volge a mezzogiorno sovrastando tutto il paese. Di una incomprensibile epigrafe, ormai completamente abrasa, si legge solo la data 1570 che potrebbe far riferimento a qualche trasformazione apportata alla chiesa in quel periodo. Assolutamente chiaro, invece, un piccolo stemma italo-sabaudo con la sottostante epigrafe. Ricorda che dopo l’unità d’Italia il campanile fu ricostruito sui ruderi di uno più antico: Questa torre / redimita di sacri bronzi / più solida ed elegante / su le rovine di vecchia e rozza mole / il Municipio edificava / quando / su i rottami di troni infranti / innalzava imperiture / la sua libertà, unità ed indipendenza / la gran Patria italiana / MDCCCLXIII. I troni infranti sono evidentemente quelli borbonici, ma proprio durante tale dominazione in questa chiesa furono realizzate le opere più belle.
L’interno ha perso, alla fine del XIX secolo, l’originario soffitto. Forse la chiesa era in cattivo stato già dal 1805 per effetto di quel terremoto che non risparmiò questa parte del territorio molisano. Gli altari sono molto belli e conservano pregevoli lavori di intarsio marmoreo che attestano uno sforzo economico della comunità locale per avvalersi di buoni marmorari di Napoli e, forse, di Pescocostanzo. Il parroco della chiesa ha avuto la cura di sistemare a lato di ognuno di essi sintetiche notizie storico-artistiche che aiutano anche il più sprovveduto dei visitatori a capire qualcosa di più sulle singole iconografie. Notevolissimo l’altare maggiore del 1754, tra i più belli della provincia, non solo per le ricche decorazioni del paliotto, le plastiche volute capo-altare e le testine di angelo che sovrastano il tabernacolo con la porta dorata realizzata nel laboratorio del napoletano Scipione, ma anche per la notevole balaustra che conserva intatto il piano inclinato del davanzale ricco di intarsi floreali dai colori fantastici.

Sul pilastro del presbiterio vi è un quadro seicentesco con Maria, S. Giovanni ed una pia donna davanti alla Croce dalla quale il Cristo è stato già deposto. Vi sono rappresentati tutti i simboli della passione: i dadi, la borsa con le 30 monete, la scala, la lancia che servì a forare il costato di Cristo, la canna con la spugna di aceto, i chiodi, la colonna della flagellazione, la tenaglia, la lanterna della cattura, la corona di spine ed il gallo del tradimento di S. Pietro. Una volta questo quadro era sistemato nell’altare di fondo della navata di sinistra che, realizzato nel 1620 in marmi intarsiati che ricordano i paliotti napoletani di Pescocostanzo, ora ospita un bel crocifisso del XVIII secolo. Gli altri altari di questa navata sono della fine del XVII secolo. Il più originale per il disegno è il primo da sinistra ed ha due belle colonne di pietra intarsiate.
Ben lavorati sono i capitelli che reggono un timpano spezzato all’interno del quale si apre la solita Janua Coeli. Particolare è il quadro, più o meno coevo, in cui S. Domenico (con il giglio ed il libro della Regola del suo Ordine) è rappresentato in una icona che viene mantenuta dalla Madonna Regina, S. Caterina d’Alessandria e S. Maria Maddalena. Più avanti è l’altare della Madonna di Loreto (con i santi Giuseppe, Bernardino da Siena, Carlo e Camillo) che è rappresentata per mano di un artista locale vissuto ugualmente a cavallo del XVII-XVIII secolo.
Poi c’é l’altare con la Madonna delle Grazie che dona il latte dal suo seno, con i santi Giuseppe, Giovanni Battista e Donato. L’altra navata accoglie l’altare del 1758 dedicato all’Addolorata con ai lati S. Giovanni Evangelista che regge il calice con il vino avvelenato che si trasforma in serpentello ed un raro S. Francesco Caracciolo. Appresso vi è l’altare seicentesco di S. Nicola ed in fondo i busti del domenicano S. Vincenzo Ferreri, rappresentato come al solito con le ali, e di S. Rocco che mostra le sue ferite.
Scendendo per via Marracino, superato un bel palazzo dal portale barocco difeso da una saettera sottostante la finestra laterale, si arriva alla curiosa piccola casa dello scalpellino-muratore. E’, ovviamente, tutta in pietra. Ricca di decorazioni e scritte di ogni genere. Una rappresentazione caricaturale a rilievo dovrebbe essere una sorta di autoritratto che Vincenzo Mannarelli si fece nel 1735, come dice la sottostante scritta: AD MDCCXXXV M. VINCENZO MANNARELLI MURATORE SCARPELLINO. Cinque volte, qua e là, è ripetuta l’immagine dell’aquila bicipide. Singolare il portale decorato con motivi floreali ed una strana figurazione di un paggio in abiti settecenteschi da una parte ed una dama che sembra tenere in mano una conocchia dall’altra.

La parte alta di Montenero Valcocchiara sembra saper resistere alle violenze urbanistiche che caratterizzano molti paesi circostanti. Anzi, girando per i vari borghi come quello pittoresco del Colle (dove forse era l’antico castello) dai portali, loggette e balconi settecenteschi, si ha l’impressione che una gran quantità di persone, anche straniere, abbiano deciso di fare di Montenero una specie di rifugio tranquillo conservando ed esaltando le sue caratteristiche ambientali.

Andando via da Montenero non si può fare a meno di vedere il Pantano della Zittola, ormai famoso per le centinaia di cavalli che vi sono allevati allo stato brado e per gli allegri raduni equestri che spesso si tengono nel periodo estivo.

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