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Il Verlascio, l’anfiteatro romano di Venafro

By 9 Febbraio 2008 Dicembre 16th, 2015 One Comment

Estratto da “SAMNIUM“, Rivista storica – Benevento, Gennaio-dicembre 2007.
(Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons)

Franco Valente
Il Verlascio, l’anfiteatro romano di Venafro

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Amplum habuit amphiteatrum ad gladiatorum ludos, cujus vestigia adhuc supersunt: plurimaeque prostant marmoreae inscriptiones, quae indicant quanta fuerit haec civitas Romanorum florente fortuna.
Così riferisce Ferdinando Ughelli sull’anfiteatro di Venafro nel trattare dei vescovi di questa città .

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Le guerre sociali e la sconfitta della lega italica nel I secolo a.C. significarono la definitiva scomparsa dei Sanniti dalla geografia politica del Mediterraneo. Il territorio, corrispondente all’attuale Molise, già conquistato nel 293 dopo le guerre Sannitiche, venne così ad inquadrarsi sistematicamente nella organizzazione statale romana e di conseguenza i vari centri di interesse politico e commerciale assunsero definitivamente l’aspetto di città organizzate urbanisticamente. I segni della conquista romana sono ancora oggi riconoscibili non solo in aree conservatesi pressoché intatte per essere state abbandonate in epoca medioevale, come è il caso di Saepinum, ma anche in quelle città che si sono trasformate nelle epoche seguenti alla caduta dell’Impero Romano, come Venafrum, Bovianum, Aesernia, Larinum, Terventum, dove le successive trasformazioni hanno conservato l’originario impianto urbanistico.

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Questa circostanza è una ulteriore conferma della ormai consolidata convinzione che gli interventi romani nei territori conquistati non si siano limitati alla semplice acquisizione della proprietà, ma abbiano puntato soprattutto ad impiantare stabilmente nuovi sistemi urbanistici che da una parte avrebbero costituito una organica ed efficiente organizzazione di servizi e dall’altra si sarebbero definiti come veicoli stabili della propaganda ideologica dominante. La centuriazione agraria, certamente impiantata ex novo in un’area prevalentemente destinata alla pastorizia, costituì una vera e propria marchiatura del territorio conquistato, tanto che gli allineamenti dei lotti, determinati nella realtà dalla necessità di organizzare gli scoli delle acque mediante un funzionale sistema di fossi diconfine, venivano sacralizzati con operazioni augurali che volevano soprattutto significare una definitiva ed irreversibile trasformazione del territorio. Gli antichi tratturi formatisi dalla necessità di far muovere gli animali per la transumanza ed utilizzati in pratica solo due volte all’anno, vengono intersecati da una serie di strade la cui frequentazione pressoché costante durante l’anno testimonia lo spostamento del polo di riferimento dominante che ovviamente diviene anche il nuovo polo di manipolazione della cultura. E’ così che a Roma si consolida la mentalità popolare, abilmente sollecitata dalla classe politica al potere, della Roma “caput mundi“. In Roma vanno a sintetizzarsi tutte le nuove esperienze provenienti dalle singole zone conquistate, e da essa ripartono indicazioni operative che altro non sono se non la sintesi generalizzabile del mondo allora conosciuto.

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Intanto sintesi ed intanto generalizzabile solo perchè Roma ne era il centro di elaborazione e contemporaneamente di diffusione. La grande capacità romana fu proprio nell’appropriarsi della cultura e della tecnica singolarmente elaborata nei territori conquistati per restituire sia l’una che l’altra sotto l’unificante etichetta della “romanità”.

Con la formazione del sistema imperiale, storica ed inevitabile conseguenza delle premesse dei secoli precedenti, la tecnica costruttiva non compie sostanziali passi avanti, tuttavia vengono esaltati, quasi fino alla esasperazione, i modelli architettonici già conosciuti con una proliferazione impressionante di opere che comunque non rappresentano, se non raramente, un miglioramento dei canoni già conosciuti. Non solo sarà ripetuta in epoca imperiale una esperienza simile a quella greca, ma addirittura molti suggerimenti presenti nell’area italica non verranno neppure compresi.
Non deve perciò trarre in inganno la grandiosità degli interventi imperiali, che tuttavia rimane un segno tangibile e incancellabile di un periodo storico durato quasi cinque secoli, anche se molti monumenti scompariranno alla vista perchè interratisi in lunghi secoli di abbandono, altri saranno inglobati in sovrapposizioni medioevali, ed altri ancora saranno distrutti dall’opera dell’uomo, non sempre rispettosa delle testimonianze storiche. Nella regione molisana, che in buona parte coincide con l’area geografica della Regio IV della divisione Augustea ancora rimangono tracce consistenti degli interventi imperiali, che comunque furono di notevole portata nonostante la evidente povertà agraria del territorio. Dei precedenti nuclei sannitici organizzati in un diverso sistema urbanistico, sicuramente in gran numero fino al IV secolo a:C., soltanto alcuni conservano una continuità funzionale. Sopravvivono per trasformarsi in organizzate città, concepite con sistemi che potremmo definire moderni, solo quei centri che per una serie di valutazioni strategiche e politiche vengono a coincidere con i punti nodali nel disegno riorganizzativo romano. E’ il caso, per esempio, di Venafro, di Isernia, di Boiano, di Trivento, di Larino, mentre si perde qualsiasi traccia di Velia, Erculaneo, Imbrino, Ferento e di altri centri sannitici.

Veduta di Venafro del Pacichelli (1695)

 

Le città romane, nel crescere sugli antichi insediamenti preesistenti, vengono a porsi come sistema centripeto dell’intero territorio circostante, provocando di conseguenza un fenomeno di accentramento di servizi ed un progressivo decadimento degli insediamenti periferici. Si vengono così a privilegiare quei centri che si trovano sugli assi di comunicazione principali ed è su di essi che si concentra l’attenzione pianificatrice romana. Tra gli edifici certamente funzionali della propaganda romana sono quelli destinati alle pubbliche manifestazioni, ed in particolare i teatri e gli anfiteatri.

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Le ben note citazioni di Orazio, Plinio, Cicerone e, soprattutto, Catone a proposito della bontà delle tegole e dei badili di Venafro, del suo suolo adatto alla coltura dell’olivo liciniano, giudicato allora il più buono del Mediterraneo, e della sua prosperità sono una indiretta conferma della esistenza di un organizzato sistema urbanistico il cui impianto è certamente precedente al periodo storico in cui questi scrittori vissero. Nessuno di essi ha in qualche modo fatto riferimento alla esistenza di edifici teatrali, ma le testimonianze archeologiche ci vengono incontro .

La Venafro romana, come si può desumere osservando le strade attuali, si sviluppa adagiandosi su due colli le cui parti apicali ne vengono a costituire i limiti urbanistici. All’interno di questo tessuto si sviluppano le case, le ville, il foro, mentre sui margini esterni, verso la montagna e verso la pianura, sono posti rispettivamente il teatro e l’anfiteatro. La conformazione urbanistica attuale permette con una certa sufficienza di ipotizzare anche la sua evoluzione nel tempo in considerazione che il nucleo urbano, dal periodo sannitico precedente alla invasione romana fino ad oggi, non ha mai modificato la sua posizione. La scoperta di strutture poligonali al di sotto del mastio del castello, nonché il taglio costituito dalla via Cristo, in prosecuzione di via Caserta, primaria via di accesso alla città sulla diramazione della via Latina proveniente da Isernia (oggi via Maiella), fanno ritenere che un nucleo romano intorno al III secolo a.C., cioè subito dopo le guerre sannitiche, si fosse attestato nella zona alta di Colle S.Angelo, dove più tardi si situerà anche il nucleo longobardo.

Soltanto in epoca augustea la città assunse la sua forma definitiva, quando cioè il modulo quadrato antico venne esteso fino al piano come elemento regolatore di tutta l’attività edilizia. Il foro va a coincidere con l’attuale piazza di Porta Nuova mentre, allineati con esso in senso obliquo si pongono il teatro e l’anfiteatro, ai limiti dell’abitato.

Nella parte esterna alla città, verso la campagna, è situato l’anfiteatro, riconoscibile con assoluta sicurezza in quel complesso che oggi, come da molti secoli, viene comunemente chiamato “Verlascio” o “Virilascio”.

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Ipotesi ricostruttiva dell’impianto della Venafro imperiale

Già nel 1824 Gabriele Cotugno aveva tentato, ripreso poi da vari studiosi locali, di dare una risposta al perchè popolarmente l’anfiteatro di Venafro fosse denominato con il termine di “Verlasce”, “Birilascio” o “Verlascio”, ma giunse ben lontano dalla soluzione del problema. Nelle sue “Memorie istoriche di Venafro” infatti dice:” Andò in disuso l’Anfiteatro, molto probabilmente a’ tempi dell’Imperador Costantino, dopo del suo editto famoso, che proibiva gli spettacoli gladiatori. I vandali poscia ne rovesciarono l’edificio; e da’ Saraceni nel saccheggio della Campania sembra derivato il nome di “Vorlascio”, in Arabo, “Bir-la-os” secondo lo Assemanno, ossia “Arcem fortem”, “amphiteatrum munitum” sebbene il Mazzocchi ripetesse “Berosalim” dagli Unghereso, e Germaniche val lo stesso di “città vecchia”, e ch’esprime la circostanza posteriore a’ giuochi aboliti. Conviene il Pratilli nel significato del nome che fa nascere da voci longobarde.

A questa ultimamente si sono aggiunte altre interpretazioni tutte poco credibili. Alcune accreditavano l’ipotesi che il termine venisse dall’arabo, ma con il significato di “luogo del pozzo”, e ciò in considerazione che nell’area dello anfiteatro è convogliata una vena d’acqua proveniente dalla fontana detta di Pitto. Altre insistevano perchè il termine provenisse dalla consuetudine dei longobardi di utilizzare vecchi impianti romani per gli spettacoli ed i combattimenti degli orsi. Però, l’unica documentazione storica accertata su questa consuetudine è relativa al Parlascio (anch’esso originariamente anfiteatro) di Firenze dove i Longobardi usarono effettuare tal genere di spettacoli, ma è troppo poco per generalizzare l’uso del termine. D’altra parte è significativo che solo gli anfiteatri assumono il termine di Parlascio, Berlascio, Verlascio, Verlasce, Perilascio, mentre non si ha notizia dello stesso toponimo in città prive di anfiteatri ma comunque dotate di edifici che avrebbero dovuto ospitare combattimenti di orsi.

L’unica ipotesi credibile è quella del Devoto che chiarisce in maniera definitiva che il termine abbia un preciso riferimento alla sua forma fisica derivando da una parola della tarda romanità mutuata da due termini di provenienza greca. Si tratterebbe del termine di perilasium nato dalla fusione dei termini greci perì (intorno) ed elao (girare). In altri termini Verlascio, non significherebbe altro che girare intorno.

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Sulle testimonianze dell’uso di tale termine nelle aree più vicine a Venafro ci sono utili i riferimenti a Minturno e Cassino, ma anche in quelle più lontane di Salerno (Berolais) o Firenze e Lucca (Parlascio). L’anfiteatro di Minturno è definito Urlasci o Vùrlasci. Se ne è occupato Angelo De Santis : “Si dà questo nome alla regione delle rovine di «Minturnae», esistenti ai margini dell’Appia presso la sponda de¬stra del Garigliano. In un doc. del 1266: Una petia de terra ipsius ecclesie [Sancti Bartholomei], posita infra fines eiusdem terre Traiecti ubi dicitur Borlasii, iuxta arcum antiquum, (…) a li ur¬lasci alias lo ciéuzo russo; (…) una terra seminatoria dove se dice alli urlasci de tomola 10 iuxta li beni ‘de Antimo Varone, co lo coliseo gionto la via regia; (…) a li orlasci.
In documenti del ‘700, principalmente nell’Onciario, 268a, 334b, 397b, 419a, 420a, si trova, per falsa etimologia, come a Capua, Atina e altrove, Virilasci. Così pure nel Catasto del primo decennio dell’800. Nell’Inventano, 22a, si registra anche: alla fico gentile seu alli birlassi, o celso rosso. La voce si ricollega a Berolais, Berelais, Berolasi, Berelasi, Perelassi, Verlasi, Vorlasco e simili, lat. med. dei documenti fiorentini Perilasium, toscano Parlascio, Parlagio ecc.: nomi, coi quali erano chiamati in Italia, nel medio evo, segnatamente gli anfiteatri, talvolta i teatri e meno spesso gli edifici antichi rotondi U. Gualazzini, storico del diritto, dopo il riesame delle fonti e della bibliografia, conclude che i nomi dei tipo parlagio, tanto diffusi in Italia, non indicano anfiteatri secondo l’opinione corrente, ma « zone limitrofe o circostanti ai campi militari bizantini » e per l’etimo pensa al bizant. àllàsion, nome di un’unità militare, attraverso un parallàssion e un periallàssion da cui discen¬derebbero rispettivamente le forme del tipo parlasium e quelle del tipo peri¬lasium
.
Ugualmente Verlascio viene definito nel XVIII secolo l’anfiteatro di Cassino. Lo testimonia E. Gattola facendo riferimento anche al Berolais di Capua e agli anfiteatri di Pozzuoli e Minturno : Ampitheatrum in planitie situm vulgo Colossaeum reticulato opere extructum, figurae ovalis duorum theatrorum ad instar, ut vox ipsa sonat (…) et Vuorlatium juxta eundem locum vocabatur, preoccupatum tenebant, coeperum militariter experiri etc(…) Item ferragmale unum cum aranciis, et cum aedificio Verlasciorum juxta moenia terra, juxta viam publicam a duabus partibus, quod Ferragmale dicitur Ortus Donnicus.(…) Ortus Donnicus cum Berlacis fol. 184 a tergo Verlacios, fol. 189 Verlachiis etc.(…) Imo in inventario bonorum, quae ecclesia S. Petri ad Monasterium possidebat anno 1432 appellatur Verlaces, et in instrumentum quodam per Johannem Martucci anno 1513 rogato haec insunt verba: Quoddam theatrum vulgariter dictum li verlasci moenibus circumdatum etc. juxta bona Sacri Monasterii a pluribus lateribus etc. Legatu Q. Maxii Symmachi Mazzocchi in mutilum Campani amphitheatrum titulum commentarius fol.34, et frequentibus, ubi sapienter explicat, et erudite, quid sibi velint haec nomina, his fere similia, quibus Capuanum amphitheatrum sequioribus saeculis fuit appellatum. Iisdem nominibus Minturnarum, et Puteulorum Amphitheatrum indicatum legimus. Hoc eodem fere nomine Capuanum Amphitheatrum Erchempertus appellat in sua Langobardorum historia edition. neapolitan. 1643 apud Camill. Peregrinum nu. 40 et 41. Johannes Octavus in epist. 170 Omnibus, inquit, episcopis, Cajetam, Neapolim, Capuam, Berosalim, et Amalphim, Beneventum, et Salernum incolentibus. Michael Monachus in Sanctuario Capuan. p.228 Berolasis, inquit, locus est in Capua veteri ad S. Stephanum vulgari nuncupatione dictus est etiam hodie li Vorlasci. Anonymo Casinensi Borelais (Erchemperto Berelais) latine loquentibus Amphiteatrum, neque mirum si episcopus in Capua Veteri constitutus Suricorum, ver Berelasis appellabatur, cum illis in vicis Capuae veteris essent insignores ecclesiae… Vide plura de hac voce apud Duchesne in Glossar mediae, et infimae Latinitatis, et Antonium Caracciolum in Nomenclat. proprior. nomin. in fronte libri, in quo continentus quatuor Historici ad eo editi.

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Particolare di uno dei cunei con le sovrapposizioni medioevali

Il Verlascio di Cassino viene richiamato dal Gattola in altra parte : Item ortus alius super Verlaces, iuxta ipsos Verlaces, juxta res dotales Moscardini (…)
Ancora il Gattula richiama il Vorlascio di Cassino a proposito di S. Petri oppidum: Locus, quem worlatium appellat, vetustissimus est, nobilissimumque amphiteatrum prope ipsa Cassini rudera situm, quod sequioribus seculis Vorlasci dictum est, ujt in descriptione urbis Casini probavimus.

In Campania era consuetudine che i giochi gladiatori fossero collegati a cerimonie funerarie. Si svolgevano su spazi non necessariamente caratterizzati da impianti stabili. Successivamente, verso gli inizi del I secolo a.C., gli impianti provvisori furono sostituiti con edifici in muratura che, come nel caso di Venafro, venivano sistemati ai limiti della Città, all’esterno, e a diretto contatto con il territorio da cui evidentemente veniva la maggior parte di spettatori. Dal rilievo delle strutture attualmente esistenti, che sono il risultato di una sovrapposizione di corpi di fabbrica medioevali e seicenteschi all’originario impianto romano, si può ricostruire con sufficiente approssimazione non solo la sua forma ma anche la sua dimensione. L’ellisse che costituiva il perimetro esterno aveva il diametro maggiore di circa 110 metri e quello minore di circa 85 metri. Tra gli esempi consimili quello che più si avvicina alle dimensioni dell’anfiteatro venafrano è quello di Lucca ove tra l’altro si è verificata una sovrapposizione successiva che, sebbene di tipo edilizio diverso, formalmente è molto somigliante alla sovrapposizione del Verlascio.

L’arena, anch’essa ellittica, doveva avere i diametri rispettivamente di 60 e 35 metri circa. Le gradinate si sviluppano per una superficie complessiva di circa 4.000 metri quadrati con le possibilità di accogliere fino a 15.000 spettatori seduti. La costruzione era impostata staticamente su 68 cunei con volta a botte tronco-conica. Segni dei cunei e delle volte sono ben visibili in più punti delle murature e in particolare sugli attuali accessi alla piazza ove si può ricavare anche l’inclinazione delle gradinate. Sebbene di dimensioni notevoli, che pertanto ci indicano una popolosità almeno doppia di quella attuale del territorio venafrano, il complesso non doveva essere di particolare interesse architettonico. Lo dimostra da una parte una impostazione approssimativa delle strutture murarie e dei muri di spina che, anche se inquadrati in un ellisse regolare, si presentano irregolari nella simmetria generale. Dall’altra poi non presenta, o perlomeno non conserva, alcun elemento architettonico di rilievo, soprattutto sul perimetro esterno, ove si vedono ammorsature in opera laterizia che non lasciano intravedere la possibilità di paramento in pietra.
Né tuttavia si può escludere che il saccheggio dei pezzi sia stato talmente sistematico nei secoli, da non lasciare alcuna traccia di elementi decorativi.

Voto suscepto

 

L’impianto fu certamente usato molto spesso e di sicuro in esso si svolsero importanti giochi all’epoca della malattia di Augusto, come è documentato da una epigrafe che ci fa dedurre la sicurezza della sua esistenza nel I secolo d.C.. L’iscrizione che ricorda l’avvenimento è oggi murata, capovolta, su una casa di vico Porta Guglielmo, vicino alla chiesa di S.Antonio.
VOTO. SUSCEPTO. PR.
SALUTE. PERPETUA. DOMUS
AUGUST. CUM. EDIDISSET
MUNUS. GLADIATORIUM
POPULUS. IN. STATUAM. COM
Q. VIBIO. Q. CAESI. F. TER
RUSTICO TI VIR Q

Raffaele Garrucci così la interpretava nel secolo scorso : Le spese degli onori concessi ai benemeriti cittadini, si facevano talvolta dalla cassa pubblica, talvolta vi concorreva il popolo (…). Quinto Vibio Rustico figlio di Quinto Cesio, e vuol dire, che era entrato per adozione nelle famiglie dei Vibi e nominavasi però Q.Vibius Rusticus Caesius, fu duumviro probabilmente quinquennale nell’esercizio della qual carica votò alla salute della casa imperiale uno spettacolo di gladiatori, il qual voto avendo egli sciolto, gli fu posta una statua col denaro liberamente conferito dal popolo di universale gradimento.

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Un’altra epigrafe con bassorilievo fa riferimento all’anfiteatro e anche in questo caso sembra attendibile la interpretazione del Garrucci. Il reperto si trova conservato nell’atrio del palazzo Cimorelli:

INCITATVS CASS. I. ). I. M.
SERENVS CASS. II. ). II
BLASTVS CAS. II. V.
ASTER IVL. II. )I . M
EVTHICVS CASS. III.).III.V.
NIGER IVL L.V.).III.M.
BASSVS..IVL V.).IV.V
CHRESTVS CAS. I.).I.M.
Sembra che questo anaglifo abbia una volta fatto parte di alcun sontuoso monumento sepolcrale. Il bassorilievo è un po’ guasto, e l’arte ne è rozza, niente però fa ostacolo, perchè se ne possano leggere e interpretare le epigrafi, e le persone e le armi diverse, se non è la difficoltà dell’argomento. Ho più volte avuto occasione di trattare di gladiatori e parmi che alcune di quelle dichiarazioni potranno giovare alla materia presente. Le figure scolpite rappresentano nove gladiatori, e due lanisti. A qual fine vi siano introdotti questi lanisti, noi in parte il sappiamo da qualche antico scrittore, in parte rileviamo dai monumenti. Essi vi intervenivano per incoraggiare la pugna e per premiare il vincitore (…). Ecco in qual modo si dovranno leggere ed interpretare le iscrizioni del marmo venafrano: Incitatus Cassianus pugnavit semel, vicit semel, moritur. Serenus Cassianus pugnavit bis, vicit bis, vincit. Blastus Cassianus pugnavit bis, vincit. Aster Iulianus pugnavit bis, vicit semel, moritur. Euthycus Cassianus pugnavit ter, vicit ter, vincit. Niger Iulianus Libertus pugnavit quinquies, vicit ter, moritur. Bassus Iulianus pugnavit quinquies, vicit quater, vincit. Chrestus Cassianus, pugnavit semel, moritur. (Garrucci).

In effetti si tratta di un vero e proprio resoconto, quasi una cronaca sportiva, con i risultati di uno scontro gladiatorio avvenuto nell’arena venafrana. Volendo analizzare con più attenzione il bassorilievo sulla scorta della ricostruzione del Garrucci possiamo riassumere cosa sia accaduto in quella circostanza. Intanto è da ritenersi che se a Venafro vi era un anfiteatro di così vaste dimensioni, sicuramente vi esisteva pure una scuola speciale per l’addestramento dei combattenti. I gladiatori (il cui nome deriva dalla consuetudine per la maggior parte di essi di usare il gladio per i combattimenti) in genere erano riuniti in “familiae” e la disciplina veniva impartita da un “lanista” che spesso poi interveniva durante gli spettacoli per incitare i duellanti o per separarli in caso di pericolo per la vita di uno dei contendenti. La disciplina era particolarmente ferrea ed era finalizzata soprattutto ad evitare che i gladiatori potessero organizzarsi come forza pericolosa per lo Stato romano. Le caserme in cui si allenavano sotto la guida di “ductores”, maestri di scherma gladiatoria, in genere dotate di una grande palestra all’aperto, erano situate nelle immediate vicinanze dell’anfiteatro. Non è da escludere che i pochi avanzi di murature venuti alla luce al limite di via Colonia Giulia, possano appartenere proprio ad una caserma se si osserva che essi dovrebbero essere la parte fondale di una sala rettangolare di discrete dimensioni.

Scorrendo gli otto nomi che si ritrovano sul bassorilievo, ricaviamo che ben cinque di essi appartengono al nucleo dei Cassianus (Incitatus, Serenus, Blastus, Euthicus, Chrestus), mentre gli altri tre sono Iulianus (Aster, Niger, Bassus). Del nono combattente si è perso il nome per la rottura della lastra. Vediamo come sono armati. Bassus ed il gladiatore senza nome sono protetti da un elmo gallico a due corna e muniti di gladio e scudo barbarico. Tutti gli altri hanno un elmo di ferro con maschera traforata, cimiero e falde larghe per ripararsi dai fendenti verticali. Nella mano destra un gladio e nella sinistra uno scudo oblungo. Gli altri due personaggi senza nome reggono un’asta, ma non sono dei combattenti. Probabilmente, come sostiene il Garrucci, si tratta di due lanieri che intervengono solo per sollecitare gli scontri. Il risultato del combattimento è riassunto nelle scarne lettere delle epigrafi da cui si ricava che vi furono almeno quattro morti. Il più sfortunato pare sia stato Incitatus che, sebbene avesse vinto il primo duello, rimase morto sul campo, probabilmente per le ferite riportate.

Serenus e Blastus sostennero ognuno due combattimenti, vincendoli ambedue. Niger (il cui nome fa ritenere che si sia trattato di un africano) ebbe cinque scontri di cui ne vinse quattro. Aster vinse il primo combattimento, ma venne ucciso nel secondo. Euthicus uscì vincitore dai tre duelli sostenuti. Chrestus invece soccombette, rimanendo ucciso, al primo scontro.

Per molto tempo l’anfiteatro venafrano rimase abbandonato. Certamente il Verlascio costituì dal medioevo in poi una vera e propria cava di pietre, come del resto lo divenne gran parte degli edifici romani, e così che si procedette ad un sistematico saccheggio dei sedili in pietra. Una volta perduta la funzione originaria il suo impianto costituì l’occasione per una trasformazione funzionale alla economia rurale collegata alla coltura agraria. Le volte tronco-coniche che sorreggevano le gradinate furono demolite ed i muri di spina divennero la base di nuovi altri muri in maniera da fornire una lunga serie di ambienti a due piani aggregati a schiera ed utilizzati come stalla nella parte bassa e come fienile in quella superiore. Vari elementi attestano la sua esistenza, sostanzialmente nella forma attuale, nel XVII secolo e tra essi vi è una pietra che data una delle stalle nel 1624. Sicuramente completo era alla fine di quel secolo come possiamo desumere osservando quel complesso che nella stampa seicentesca del Pacichelli viene definito “Coliseo”.

Per un periodo tutto il complesso appartenne alla famiglia di Ugone Martucci, Cavaliere dello Speron d’Oro, cui fu donato da Re Roberto. Così Ludovico Valla nel XVII sec. dice del Martucci : In tre cose particolari han dimostrato gli Antichi gran applicatione, e genio, e però in quelle più che nell’altre profusi nello splendore; cioè negli Aque¬dotti, ne Teatri, e nelle terme. Già dell’Aquidotto fu parlato abastanza: resta trattar brevemente del Teatro, e poi delle Terme; si vede questo fuori della Città assai capace di giro, rovinato, e disfatto, et ancora vi sono molte grotte che dimostran il modello, la sodezza, e 1’artificio della fabrica; la maggior parte però sono state guaste, e ridotte in Pagliai, e finili per rimessa di buoi, questo Teatro detto oggi Verlascio fu donato da Re Roberto, ad Ugone Martuccj suo gentiluomo Cavaliere dello Sprone dell’oro da chi discese Martuccio de Martucci; di costui si legge una scrittura, che donò li Borlasci ad Antonino Martucci suo figlio, e a Costanza Caraffa di Napoli sua moglie con altri diversi sta¬bili, e fu stipulata per mano di Notar Marciano Marotta a 23 novembre 1334. Questo Antonino detto altrimenti Antonio de Martuccio in un Contratto di Compra fatto per mano di Ottaviano Marotta alli 18 Marzo 1645, e chiamato similmente. Eques Auratus. Discese da costui Nicandro e Vittoria Martucci, che fu moglie di Cesare Falco di Napoli, et hebbe in Dote tra 1’altre cose una parte del sudetto Verlascio. Nicandro hebbe per moglie Vittoria S. Barbara, come da Capitoli matrimoniali per Notar Nicandro Mainardi nell’anno 1569. Vendicò la morte di Lutio S. Barbara, et havendo havuto la retrocessione della parte del Verlascio che toccò a Vittoria sua sorella donò tutto detto Verlascio al Beneficio di S. Giovanni Evangelista, che prima era stato fondato da Ugone suo Proavo mettendo questa sua iscrittione nel fontespicio dell’altare.
In virtù dunque della sua cessione oggi si trova il suddetto Verlascio sotto il Dominio della medesima Cappella con esser rendititie tutte le grotti ridotte in pagliari accettone alcune che dal Falco furono concedute libere
.

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Di tale beneficio si ha il ricordo nella seconda cappella della navata di sinistra della Cattedrale venafrana, voluta nel 1401, come racconta la lapide che ne attesta lo juspatronato, da Ugo Martucci. Le decorazioni di questa cappella furono commissionate da Nicandro Martucci, suo pronipote, nel 1582, mentre era vescovo Ladislao d’Aquino. E’ rappresentata la scena della Crocifissione. L’iconografia è tra le più ricorrenti. Ai lati di Cristo sulla croce vi sono la madre Maria e l’apostolo Giovanni Evangelista. In basso, l’iscrizione su pietra che ancora si conserva, ricorda che fin dal 1401 nella Cattedrale, non sappiamo se proprio in quel luogo, vi era la cappella creata dal suo avo Ugo Martucci:
SACEL HOC
QUOD A FVNDAMENTIS EXTRVXIT D. ANTONIVS
COGNOMINATVS VGO DE MARTVTIJS
AVRATVS EQVES ET FAMILIARIS SERENISSIMI
REGIS ROBERTI A.D. MCCCCI
NVNC DENVO ILLVSTRI ET REVERENDO DOMINO
LADISLAO DE AQVINO ANTISTITE NOSTRO TEMPLVM
QVOD PROPTER VETVSTATEM POE
NE CORRVPERAT MAGNIS SVMPTIBVS
REFICIENTE D. NICANDER DE MAR
TVTIJS MILES GRAVIS ARMATURE PATRIAE
DEFENSOR VIR FORTISSIMVS ET SI FORTV
NA MINVS QVAM ANIMO PRAESTANS
INSTAVRAVIT A.D. MDLXXXII

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Sappiamo sempre dal Valla che, comunque, il 5 giugno 1688 un forte terremoto nella Campagna dannificò la massaria di Villanuova de PP. di S. Francesco e quella dei Signori Dattoli et un Pagliaro del Coliseo.
E’ dunque dal XV secolo che nel Verlascio della forma iniziale romana si conserva solo l’ellisse che progressivamente diventa un vero e proprio punto di riferimento nel territorio. E’ l’idea della comunità che prevale nello stabilire la funzione dell’oggetto architettonico modificandolo e adattandolo alle proprie esigenze. Tuttavia è lecito supporre, per più motivi, che il suo rapporto con il territorio per molti secoli ne avesse determinato il suo esser vivo e funzionale e avesse condizionato il particolare orientamento dei tre accessi che ancora esistono, collegandosi essi con tre zone del territorio riservate al pascolo dei bovini, suini, ovini, e caprini. Dallo studio dei toponimi e per mezzo degli antichi Statuti della città di Venafro, è ancora possibile individuare ad occidente di monte S. Croce un luogo chiamato la “refensa”, ove si arrivava attraverso un antico sentiero che lo collegava all’accesso nord-ovest del Verlascio, attraverso l’attuale via Anfiteatro allineata con via dei Giardini.
Un altro accesso, sempre dall’esame delle mappe catastali, è allineato con l’attuale via dell’Acquedotto, dietro la chiesa del Purgatorio, e certamente collegava il Verlascio, per via extramurale, alla zona di pascolo entro cui si dovevano mantenere “li caprari”, come risulta dagli Statuti di Venafro. Il terzo ed ultimo accesso, passando per le starze di S. Donato, collegava il Verlascio alla zona riservata al pascolo degli ovini e suini, localizzabile a sud-ovest della piana di Venafro.
Su questi assi di percorso individuati vi sono sistemate tre cappelle: sul primo la cappella dedicata alla Madonna della Libera, costruita sulle cosiddette Mura Ciclopiche; sul secondo la Madonna di Montevergine in una zona dominante e sulle coste della montagna, vicino a grotte naturali fino ad oggi ancora utilizzate dai caprari; sul terzo la già citata chiesa di S. Donato, molto vicina al Verlascio stesso.

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Bibliografia

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F. VALENTE, Venafro, origine e crescita di una città, Napoli 1979
F. UGHELLI, Italia sacra sive de Episcopis Italiae,Venezia 1720
G. COTUGNO, Memorie Istoriche di Venafro, Napoli 1824
A.DE SANTIS, Saggi di toponomastica Minturnese e della regione aurunca, Minturno 1965
U. GUALAZZINI, Parlascio e perilascio, Milano, Giuffré, 1957
R. GARRUCCI, Venafro illustrata coll’uso delle lapidi antiche, Roma 1874
L. VALLA, Storia di Venafro, ed. F. DEL PRETE, Napoli 1905
E. GATTULA, Accessiones, Venezia 1734

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  • RionereseStelioSoriani ha detto:

    Quando una passione distrae da………
    I miei occhi son rimasti fissi a queste righe che del Verlascio han reso degnissima analisi ed argomentazioni susseguentesi come in una trama di un film giallo.

    Come ha trascorso i secoli questo monumento e come-dove abbia ricevuto nome ………. eppure in me s’è rafforzata ancora quella domanda che m’accompagna, mi corre affianco: Come mai i Clericali, come mai nessun monaco o Vescovo non ha piantato una chiesa in questo sito?

    Non è una domanda che pongo ad altri, sarebbe come pretendere “lavori” da chi già fa del suo e lo fa abbastanza bene, anzi benissimo.
    Anche in Roma, non so di anfiteatri divenuti chiese, solo tempi ridotti in chiese o in case d’appuntamento onde far dimenticare-perdere la sacralità pagana del sito (Quinet).

    E’ comunque bellissimo-simpaticissimo il riporto di quell’iscrizione “CAPOVOLTA”.
    Cordialmente.

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