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Da Napoli a Bonefro passando per lo stretto di Messina. Il lungo viaggio dell’altare di S. Maria della Rosa.

By 2 Giugno 2013 Marzo 10th, 2019 6 Comments

Da Napoli a Bonefro passando per lo stretto di Messina. Il lungo viaggio dell’altare di S. Maria della Rosa.

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Il 31 maggio 2013, dopo 11 anni dal terremoto del 2002, è stata riaperta al culto la chiesa madre di Bonefro.

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Ero presente all’evento perché invitato da Luigi Venditti e perché avevo gran desiderio di vedere finalmente uno dei capolavori del nostro Molise: l’altare in marmo realizzato da Antonio Di Lucca, uno dei più importanti maestri marmorari del regno di Napoli.

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Un altare di Antonio Di Lucca nella chiesa di S. Maria della Rosa a Bonefro

Di quest’altare avevo notizia dal prezioso saggio di Vittorio Casale (V. Casale, Cosimo Fanzago e il marmo commesso fra Abruzzo e Campania nell’età barocca) dove è riportato un estratto del contratto con il quale don Filippo Maria De Laurentijs de Solis, procuratore di don Teodoro di Tara, arciprete della chiesa di Santa Maria della Rosa di Bonefro, il 19 dicembre 1755 affidava a Antonio di Lucca l’incarico di realizzare l’opera.

L’accordo era stato sottoscritto a Napoli e la copia rimasta a Bonefro si trova nell’archivio parrocchiale. In origine gli erano allegati anche i disegni e il progetto dell’altare. Rimane solo il testo della convenzione che contiene una serie interessanti di notizie non solo sulle caratteristiche dei materiali e della forma, ma anche sulle modalità di trasporto dei pezzi e del suo montaggio.

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L’altare di Bonefro, fortunatamente sopravvissuto allo sciagurata consuetudine di smembrarli per adeguarli in maniera sconsiderata alle norme del concilio Vaticano II, si conserva nella sua originaria forma monumentale. Solo il colore del marmo bianco dei capi-altare è andato parzialmente perduto a causa di dannose condizioni di umidità che oggi sono del tutto scomparse.

Invece la forma generale e i singoli particolari corrispondono esattamente alla descrizione precisa e puntuale delle caratteristiche che l’opera avrebbe dovuto avere. A dimostrazione che i patti furono rispettati.

… due grada di marmo bianco scorniciate colle di loro sottograde di pardiglio, e pradella sopra dette consimile sottograde; zoccolo di pardiglio nelli due lati di detto altare, e basa di marmo bianco scorniciata sopra detti zoccoli, e pradella, secondo appare nel disegno. Similmente fare il paliotto ad urna intagliata con panegi, ed altro secondo il disegno, e la testa di scultura nel mezzo del suddetto fare da buoni scultori, e nelli lati del paliotto fare li modiglioni di rilievo che sostengono la mensa, li piedistalli commessi con cartelle a cantone intagliate, ed altro secondo gira la pianta.

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Il paliotto, come è consuetudine negli altari settecenteschi napoletani, doveva essere a forma di urna sepolcrale e Antonio Di Lucca si impegnava a far realizzare da buoni scultori la testa di scultura nel mezzo. Cosa che fu fatta mutuando l’immagine di un volto femminile giovanile che riterrei debba essere quello della Vergine cui è intitolata la chiesa, benché del tutto anonimo.

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Di chiara ascendenza vaccariana sono i fregi del gradino più alto, evidente reminiscenza della collaborazione che Di Lucca ebbe in molte occasioni con Domenico Antonio Vaccaro.

Anche i marmi risultano scelti come da contratto, a cominciare dagli alzati e dalla zoccolatura inferiore in marmo bardiglio bigio che, come gli altri marmi bianchi, viene dalle Alpi Apuane di Carrara. Vengono pure date le misure in palmi napoletani con riferimento al disegno scomparso.

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Poi vengono descritti gli altri marmi con la precisazione che il primo gradino dell’altare doveva avanzare di 3/4 di palmo per commodo delli candelieri. Interessante è l’obbligo del gradino sgusciato, ovvero dalla forma a S, di verde antico che è il marmo che viene dalla Tessaglia, probabilmente ricavato da monumenti romani.

Sopra detta mensa, e cimase deve venire il primo gradino sgusciato, scorniciato e commesso di verde antico, con suo ristello di giallo e tavoletta scorniciata al disopra proggettata e fuori 3/4 di palmo per commoddo delli candelieri. E più sopra detta tavoletta fare il gradino grande scorniciato e risaltato con mensole intagliate, che arricchiscono d’intagli detto gradino, e commesse, così le mensole come il gradino, sua custodia nel mezzo intagliata, scorniciata sopra, così a detta custodia, come sopra li descritti gradini, ed in fine il capo altare così da una parte, come dall’altra contornato, scorniciato e intagliato con testa di scoltura in ogn’uno di essi, similmente travagliata di maestri scultori, ed altro che il tutto con distinzione appare dal disegno, cioè in quella parte, che sta firmato.

Anche per gli angeli dei capi-altari viene ribadito l’impegno ad avvalersi di maestri scultori utilizzando marmo statuario senza vene notabili. Egualmente viene sottoscritto l’impegno a utilizzare nel lavoro ottimi intagliatori.

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Per i materiali si fa espresso riferimento all’uso del diaspro di Sicilia che in epoca borbonica si diffuse particolarmente con l’incremento dello sfruttamento di quelle cave che erano state utilizzate dal granduca di Toscana già dagli inizi del ‘600. Insieme al marmo siciliano, poi, viene previsto il marmo giallo di Siena, che è tra le pietre più belle d’Italia.

Tutte le pietre colorite, che apparono nel disegno, cioè diaspro di Sicilia, verde, giallo di Siena, et altro debbiano essere di pietre scelte e di ottima qualità, con loro intavolatura e ristello, e li marmi di detti altari debbiano essere bianchi chiari, e li pezzi dove vengono le sculture di marmo statuario senza vene notabili, e più li pezzi intagliati debbiano essere fatti da ottimo intagliatore, e che siano di rilievo detti pezzi d’intagli, non meno di oncie quattro, e tutti li marmi dentro muro non meno di due oncia di grossezza, e più le grade due oncia e mezzo il fronte, et un oncia nella coda, e la mensa debbia essere di grossezza per quello comprende dentello, gola rovescia e piano sotto detta gola, e l’altro riportato colla cimasa, e tutto il lavoro suddetto debbia lavorarsi et allustrarsi da buoni maestri e che sia secondo le buone regole dell’arte.

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Infine vengono anche definite le modalità dell’imballaggio e del trasporto. Nella spesa concordata era compresa tutta l’opera per collocare i pezzi dell’altare in casse di legno, per imbarcarlo a Napoli e scaricarlo alla marina di Campomarino.

Dunque, dal contratto d’opera veniamo a sapere che l’altare di S. Maria della Rosa giunse a Bonefro via mare facendo il periplo di tutta la penisola e passando per lo stretto di Messina. Ciò fa immaginare che i collegamenti stradali tra il Basso Molise e la capitale partenopea in quell’epoca fossero particolarmente difficoltosi e conseguentemente si preferiva un lungo viaggio per mare piuttosto che valicare gli Appennini. Nella spesa non era compreso il trasporto terrestre da Campomarino a Bonefro, rimanendo esso a carico dell’arciprete don Teodoro.

Invece Antonio Di Lucca si obbligava a dirigere i lavori di montaggio, personalmente o tramite un maestro di sua fiducia, rimanendo a carico dell’arciprete non solo tutte le spese per ospitarlo, ma anche quelle per porre in opera i pezzi e per far fabbricare grappe di ferro ed altro vi bisognerà.

Detto signore Antonio promette e s’obliga a sue proprie spese incasciarlo, portarlo alla marina di queste città di Napoli, imbarcarlo, scaricarlo nella marina di Campomarino, che è più vicino a detta chiesa; con che però sia lecito al detto signor Antonio trovare commodo opportuno per far condurre alla marina li marmi suddetti, senza che sia tenuto di ritrovare uno bastimento apposta, e dalla detta marina sino alla detta chiesa debbia il suddetto signor arciprete don Teodoro a sue spese farsi trasportare detti marmi, o sia altare, con essere però tenuto ed obligato detto signor Antonio di andare, o mandare a ponerlo in opera a sue spese; con che però sia detta chiesa, ed il detto signor arcipete tenuto di dare il commodo alli lavoranti, o vero al maestro che vi andarà, il mangiare e dormire nel mentre si ponerà in opera detto altare, e debbia detta chiesa ponerci il materiale, cioè fabrica, far fabricare grappe di ferro ed altro vi bisognerà, a spese di detta chiesa.

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Antonio Di Lucca si obbligava, infine, a portare a termine l’altare per il mese di luglio del 1756 pattuendo il corrispettivo di 400 ducati in carlini di argento e di seguirne la messa in opera nel mese di novembre dello stesso anno.

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Ma chi era Antonio Di Lucca?

Nato intorno al 1710 lo vediamo partecipare alle più importanti imprese marmoree a Napoli prima e dopo la metà del ‘700. Fu abile ed apprezzato scultore, esecutore spesso di progetti dei grandi architetti dell’epoca. Fu l’autore delle opere in marmo nella cattedrale di Troia negli anni successivi al terremoto del 1731 che l’aveva pesantemente danneggiata.
Tra il 1740 e il 1743 trasferì nel marmo i disegni di Domenico Antonio Vaccaro nella chiesa di S. Maria a Portici. Collaborò con Giovanni Cimafonte alla chiesa di S. Francesco Saverio a Napoli, ma poi fu l’artefice dei importanti complessi marmorei a Giugliano (1747), al palazzo Caracciolo di San Vito, a S. Maria Vertecoeli e a S. Giorgio ai Mannesi (1748).
Nel 1749 eseguì la straordinaria balaustra della cattedrale di Troia. L’anno seguente lavorò per Mario Gioffredo all’altare monumentale di S. Maria di Betlemme e poi autonomamente per le chiese di S. Maria in Donnaregina, di S. Maria dell’Arco di Miano (Napoli), del convento di S. Gennaro in Palma Campania.
Nel 1751 realizzò un altare per la chiesa di Monteoliveto a Taranto. Poco prima che realizzasse l’altare di Bonefro, nel 1753, aveva fatto l’altare di S. Maria Virgo Virginum a S. Maria della Vittoria e due fonti battesimali in S. Gregorio Armeno. Nel 1754 lavorò nel monastero di S. Marcellino e l’anno seguente completò i lavori nella chiesa dell’Annunziata di Giugliano. (V. Rizzo, Antonio Di Lucca, in Dizionario Biografico degli Italiani -1991).
Non sappiamo di altre opere nel periodo in cui realizzò l’altare di Bonefro, ma nel 1758 è impegnato nel palazzo dei Casacalenda, a piazza S.Domenico Maggiore, e subito dopo nella chiesa di S. Domenico ad Altamura. Dal 1759 continuò con grande impegno a Napoli nella chiesa di S. Paolo dei Teatini, nella chiesa di S. Maria di Loreto, nella chiesa della Concezione a Montecalvario, nella chiesa dei Santi Marcellino e Festo.
Nel 1760 fece altari e decorazioni a S. Maria dei Pignatelli al Corpo di Napoli nonché il pavimento di S. Brigida e nella chiesa del Gesù Nuovo. Nel 1761 Fernando Fuga gli disegnò, ed egli eseguì, il pavimento della basilica reale di S. Chiara, con il grande stemma dei Borbone. In quell’anno fu a Barletta nella chiesa di Nazaret e poi tornò a Napoli per realizzare la porta del sedile di Porto, progettata da Mario Gioffredo.
Dal 1762 al 1767 eseguì opere a Piano di Sorrento e a Lecce, ma soprattutto lavorò con Domenico Tucci al più importante complesso marmoreo napoletano all’interno della chiesa dei Santi Marcellino e Festo, su progetti di Luigi Vanvitelli e Mario Gioffredo. Realizzò altari in S. Agostino Maggiore, in S. Caterina da Siena, in S. Maria di Costantinopoli, su disegno di N. Tagliacozzi Canale.
Dal 1767 al 1779 diretto da Fernando Fuga si applicò alla grandiosa facciata della chiesa dei Padri Filippini. Nello stesso periodo fece altari in vari centri della Campania. Gli ultimi lavori sono documentati nel 1791 nella chiesa di S. Maria dei Miracoli a Napoli. E’ presumibile che intorno a quella data sia morto.

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  • Francesco ha detto:

    Abbiamo sempre nominato la chiesa madre con “Santa Maria delle rose”.
    Sbaglio io?
    ciao

  • Franco Valente ha detto:

    E’ vero che viene chiamata “delle rose”, ma ho voluto usare l’intitolazione riportata nel documento.

  • Michele PAPPALARDI ha detto:

    Bellissimo articolo con tante notizie che non molti Bonefrani avevamo. Grazie.
    Parli anche di Domenico Antonio Vaccaro, faresti cosa gradita (quantomeno a me) parlarci di Lui e se sia stato un nostro compaesano in quanto, come ben saprai, il cognome Vaccaro è tipico Bonefrano ed è uno dei più antichi. Spero di poter presto leggere qualcosa su di lui: A ben risentirci e grazie.

  • Michele ha detto:

    Caro Franco,
    nulla da dire sull’altare che è un vero capolavoro, ma di quel rosino alle pareti che ne pensi?

  • Franco Valente ha detto:

    Caro Michele, già mi sono espresso con un po’ di perlessità (diciamo così…). Sto scrivendo un piccolo commento ai lavori a questa bella chiesa ritenendo che in generale siano di ottima qualità. Sul rosa ripeterò le stesse considerazioni.
    Però devo dire una cosa. In genere quando parlo male di un intervento il primo a scomunicarmi è il prete. In questo caso don Antonio ha aperto un dialogo… e questo, per me che non vi ho interessi professionali, è bello.

  • Carmelo S. FATICA ha detto:

    Ancora una volta il delirio del nuovo, universale e uniformante “stile” del “rosa salmonato” delle pareti, prescritto dalla sapienza somara retribuita con pubblico denaro, ha volgarizzato l’ambientazione del magnifico altare settecentesco. Sono stanco di vedere sottratto all’umanità, quotidianamente e dappertutto, la sua fondamentale essenza: la cultura, che poi è la vita vera. Attiviamoci per protestare contro la nostra quotidiana morte.

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