Monasteri e chiese del Molise

La Cripta di S. Casto nella cattedrale di Trivento.

By 9 Luglio 2008 2 Comments

Franco Valente
La Cripta di S. Casto nella cattedrale di Trivento
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Chiunque voglia cercare di capire le vicende storiche dell’insigne cattedrale di Trivento non potrà fare a meno di rivolgersi alla ponderosa opera di mons. Vincenzo Ferrara che, con acribia e particolare attenzione, ha analizzato tutti indistintamente i documenti provenienti dalla tradizione locale e dalla documentazione ufficiale che ha poi definitivamente raccolto nel primo volume della sua opera omnia, “Diocesi di Trivento” data alle stampe nel 1990. Una mole di documenti che in qualche modo permette di giungere ad alcune conclusioni che, se pure non devono considerarsi mai definitive, possono aiutarci a collocare nel tempo, con maggiore approssimazione, alcune particolari vicende architettoniche della cattedrale triventina.
Una questione, sicuramente interessante, è quella che riguarda la cosiddetta Cripta di S. Casto che nel Molise è uno dei luoghi più affascinanti sia per i suoi valori religiosi che per la sua composizione spaziale, per i significati simbolici e per la ricchezza dei suoi elementi architettonici.
Sulla certezza che a Trivento vi sia stata la presenza fisica di S. Casto nel I secolo della Cristianità si è già pronunziata ufficialmente la Chiesa di Roma che ha definitivamente posto in dubbio una tradizione che già da tempo era apparsa poco credibile.
Diversa è la questione della presenza delle reliquie di S. Casto che, invece, appare molto più semplice da risolvere in senso positivo.
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Il problema, che meriterebbe una più ampia riflessione, può essere affrontato in questa sede in maniera necessariamente sintetica se non altro solo per stabilire se sia confermabile che almeno dal 787 nella Cattedrale di Trivento si siano conservate reliquie appartenenti ad un santo di chiara fama.
In quell’anno, infatti, a conclusione di una drammatica stagione iconoclasta, con il Concilio di Nicea II (24 settembre – 23 ottobre 787), si era sancito definitivamente l’obbligo per i Vescovi di tenere nelle chiese, insieme all’immagine delle figure sacre, anche le reliquie dei santi. Per cui, ciò che nel passato era stata semplicemente una facoltà, divenne un obbligo per i vescovi, come espressamente recitava il Canone VII: “Comandiamo che nelle chiese che sono state consacrate senza le reliquie dei santi martiri, venga fatta la deposizione delle reliquie, naturalmente con la consueta preghiera. Da oggi in poi un vescovo che consacrasse una chiesa senza reliquie, sia deposto per aver trasgredito le tradizioni ecclesiastiche”.

Il 787 è una data importante anche per la Longobardia Minore perché in quell’anno moriva il principe-duca Arechi II che, nella tradizione popolare, sarebbe stato colui che avrebbe consentito ad un nobile beneventano, Madio Carioso, di traslare le reliquie di S. Casto da Trivento a Benevento.
Siamo, cioè, proprio nel periodo in cui il culto per le reliquie assumeva una particolare funzione, e non solo liturgica, perchè il possederle assicurava una serie di garanzie nel processo di salvezza dell’anima di colui che sarebbe stato seppellito nello stesso luogo in cui era sepolto il corpo del santo.
Se, dunque, alla fine di quell’anno la Chiesa imponeva, senza deroghe, la presenza di reliquie nelle basiliche, è immaginabile che proprio in quell’anno si sia proceduto ad una traslazione di S. Casto?
E’ molto probabile che, nella realtà, in quel periodo si sia proceduto alla traslazione solo di una parte del corpo di S. Casto e che un’altra parte sia rimasta a Trivento.
Ma la cosa è difficilmente dimostrabile.
A risolvere il dubbio nella cripta ci servirebbe una tomba o, comunque, un reliquiario che attesti l’esistenza di una qualche cosa deputata alla conservazione delle reliquie.
Per quello che è dato conoscere non esiste alcun documento scritto, alcuna cronaca e alcuna sopravvivenza archeologica che possa in qualsiasi modo dimostrare ciò.
Anche il cosiddetto altare che oggi si vede sembra sia frutto di una moderna (o comunque non originaria) ricomposizione di due pezzi antichi in cui nessun elemento lascia intravedere l’esistenza di un ripostiglio per le reliquie.

 

Ma la questione appare ancora più complessa se si ritiene di far risalire al periodo longobardo-carolingio (post 774) la realizzazione della cripta nella forma che oggi vediamo.
I caratteri architettonici, se comparati a quelli di S. Vincenzo al Volturno e alle basiliche carolinge più o meno coeve, dotate di cripte, ci fanno escludere che la cripta di Trivento possa essere ricondotta al periodo di Arechi II, o addirittura ad un’epoca precedente.
La soluzione al problema della datazione della cripta, invece, appare molto più semplice se mettiamo in un certo rapporto alcuni elementi sicuramente indiscutibili: l’introduzione del culto per i santi Nazzario, Celso e Vittore e la dedicazione ad essi della cattedrale triventina.
Anche per il culto di questi santi si fa riferimento ad una improbabile traslazione che sarebbe avvenuta nel 398 quando le teste di Nazzario e Celso sarebbero state trasferite addirittura da Milano a Trivento per decisione di S. Ambrogio che in quel periodo le avrebbe scoperte. Però non vi è un solo storico della Chiesa disposto a dare credibilità a questa fantastica ipotesi.
Era talmente dubbioso anche il vescovo triventino Attilio Adinolfi che, per evitare polemiche e contestazioni sull’autenticità delle reliquie, nel 1929 fece traslare da Roma alcune reliquie autenticate di S. Nazzario e S. Celso che furono unite a quelle localmente attribuite ad essi. Qualche anno dopo, nel 1934, furono aggiunte anche le reliquie autenticate di S. Vittore.

 

Credo che proprio la dedicazione ai santi Nazzario e Celso possa aiutarci ad aprire una finestra per una diversa interpretazione dei fatti e per dare una data attendibile della realizzazione della cripta.
E’ certamente singolare che di tutti coloro che si sono occupati di mettere in ordine le vicende storiche della cattedrale di Trivento, solamente mons. Ennio De Simone, in un suo scritto sulla diocesi di Trivento, abbia dato un giusto risalto ad un documento epigrafico che gli altri hanno sempre ignorato o sottovalutato.
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Si tratta di una iscrizione che oggi si trova in vista sul primo pilastro di destra della basilica e che in tempi passati (e sicuramente prima delle trasformazioni ottocentesche) era posta in luogo poco visibile, in prossimità del cornicione. Purtroppo il testo richiamato dal De Simone oggi appare molto rovinato, ma la sua originaria trascrizione lo rende sufficientemente chiaro: MILLESIMO SEPTAGESIMO SEXTO ANNO AB INCARNATIONE DNI NRI IHS XPI INDICTIO QUARTA DECIMA IDIBUS MAJI DEDICATIO SC.ORUM MARTIRUM NAZARII ET CELSII.
De Simone ritiene importante la circostanza che l’avvenimento sia accaduto il 15 maggio e collega a tale data il motivo per cui nella cattedrale di Trivento il 14 maggio di ogni anno si tenga una solenne celebrazione priva di riferimenti particolari.
Gli altri dati dell’epigrafe vengono ignorati. Anche mons. Vincenzo Ferrara nella sua opera, sembra non dare particolare importanza alla pietra.
A noi invece sembra che vi siano almeno due elementi che possano aiutarci a capire molte cose.
Prima di tutto la data dell’avvenimento: 1076. Poi la dedicazione ai santi Nazzario e Celso.
La data del 1076 per il territorio di Trivento rappresenta un momento di particolare importanza per i rapporti che si erano concretizzati con Montecassino dove l’abate Desiderio aveva avviato una vera e propria rinascita spirituale, culturale e, soprattutto, organizzativa divenendo uno dei riferimenti importanti per la Chiesa cattolica che lo portò fino al soglio di Pietro quando divenne papa nel 1086 con il nome di Vittore III.
Peraltro la sua azione fu particolarmente efficace anche sul piano architettonico venendo attribuite alla sua persona anche le progettazioni delle basiliche che caratterizzarono il suo tempo.

 

Partendo dalla descrizione che Leone Ostiense (Codice Cassinese 47) fece della cerimonia inaugurale della basilica desideriana a Montecassino (1 ottobre 1071) e seguendo l’elenco dei personaggi più importanti che vi parteciparono, sappiamo che erano presenti Pietro di Ravenna vescovo di Venafro ed Isernia, Alberto vescovo di Boiano, Nicola vescovo di Termoli, Guglielmo vescovo di Larino e migliaia di monaci con i loro abati. Sicuramente vi era anche Giovanni V, abate di S. Vincenzo al Volturno, diretto rappresentante di Montecassino in quel territorio.
Non appare nell’elenco il nome del vescovo di Trivento. Non sappiamo se il vescovo di Trivento non sia stato citato per una dimenticanza del cronista o perché semplicemente assente. Certamente però sappiamo che da quell’anno in poi le terre che costituiscono l’attuale Molise, come quelle di Abruzzo, di Campania e del Lazio, furono fortemente influenzate dall’azione dell’abate Desiderio.

 

Non è questa la sede per dimostrare l’importanza che questo abate ebbe nei rapporti con il nascente potere normanno, ma è sufficiente sapere che Desiderio proveniva dalla potente famiglia dei conti dei Marsi ed era nato a Benevento. Monaco nel monastero di S. Sofia di Benevento ed in quello di S. Maria a Mare nell’isola di S. Nicola nelle Tremiti, fu amico di Leone IX e di Vittore II, con il quale stette a Firenze nel 1056.
Passato nel monastero cassinense, venne eletto abate nel 1058, alla immediata vigilia del definitivo tramonto dell’organizzazione politica della Longobardia Minore e nel momento in cui cominciava a consolidarsi il potere dei Normanni, dei quali, durante il suo abbaziato fu amico.
Fu di grande aiuto ad Ildebrando di Soana, divenuto Gregorio VII, nei difficili rapporti con Enrico IV. Fu pure sostenitore di Riccardo I Drengot, conte di Aversa, cha aiutò nella conquista di tutta l’antica Terra di Lavoro, del ducato di Gaeta e della contea di Aquino, ottenendo non pochi benefici per il monastero che si arricchì di nuove terre e donazioni.
Ma, a parte i suoi impegni fuori delle mura del monastero, Desiderio dette una svolta decisiva all’interno della sua comunità non solo con una sistematica azione di riorganizzazione della disciplina monastica, ma anche con una programmazione architettonica ed urbanistica che, alla luce dei risultati raggiunti in tutto il territorio circostante, non poteva maturare se non in un contesto di grande attività collettiva della quale egli fu il perno.
Attorno all’abate Desiderio fiorirono straordinarie personalità della cultura: gli storici Amato di Montecassino e Leone Marsicano, il poeta-arcivescovo di Salerno Alfano, il fisico ed erudito enciclopedista Costantino Africano con i suoi allievi Attone e Giovanni, l’esperto di retorica Alberico, l’astronomo Pandolfo di Capua, lo scienziato Lorenzo di Amalfi. Grazie all’impulso dato alle attività dello scriptorium di Montecassino in questo periodo si trascrissero, e perciò si conoscono oggi, importanti testi della letteratura classica come l’ultima parte degli Annali e delle Storie di Tacito, l’Asino d’oro di Apuleio, i Dialoghi di Seneca, il De lingua latina di Varrone, il De aquae ductibus di Frontino.

 

Dell’epoca di Desiderio abbiamo una straordinaria documentazione di opere che non solo ci permettono di chiarire con una discreta approssimazione quali fossero le problematiche che affrontava la Chiesa per dare risposta concreta a quei problemi di natura teologica che venivano posti soprattutto dalla fazione simoniaca, ma anche per capire in che termini tale risposta veniva data. E’ vero che Desiderio si pose contemporaneamente l’obiettivo di una rigida applicazione della Regula Benedicti e quello di una revisione degli atteggiamenti politici in funzione del pratico raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma è altrettanto vero che fu realisticamente l’attore ed il programmatore di una strategia che potremmo definire globale per il fatto di interessare ogni aspetto del contesto religioso come di quello, apparentemente esterno, civile.
Per questo le sue iniziative non si limitarono solo ad una riorganizzazione del sistema monastico ed alla intensificazione del coordinamento di tutte le abbazie che comunque avevano nella regola benedettina un punto sicuro di riferimento, ma tentò, riuscendovi abilmente, di trasferire anche nella organizzazione secolare della Chiesa quei principi che all’interno del monastero erano positivamente sperimentati.
Questo dunque è il contesto in cui rinasce dalle fondamenta la chiesa cattedrale di Trivento e sulla scorta di quanto accaduto anche a Venafro ed Isernia possiamo affermare con una certa sicurezza che anche la cattedrale di Trivento rientrasse in quel disegno programmatico di Desiderio che interveniva direttamente in una sorta di pianificazione architettonica delle chiese cattedrali e non, che, nel complesso, dovevano rispondere a criteri architettonici omogenei anche se ognuna di esse avrebbe avuto caratteri e forme in qualche modo autonome.
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E’ certo che la cattedrale di Trivento sia stata sostanzialmente trasformata nella forma attuale solamente nel XIX secolo, come attestano non solo i documenti cartacei, ma anche l’epigrafe posta sulla sua facciata. Altre precedenti modifiche erano state effettuate nei secoli precedenti ed in particolare nel XVIII secolo quando l’architettura, in forma barocca, dovette adattarsi alle nuove indicazioni liturgiche controriformiste .
Tuttavia vi sono ragionevoli motivi per ritenere che tutte le trasformazioni avvenute nel tempo non abbiano fatto altro che ripetere un suo originario impianto basilicale a tre navate.
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La scoperta abbastanza recente della base di una struttura semicircolare avvolgente il nucleo centrale esterno della cripta ha messo in evidenza che in un certo periodo (che ritengo riconducibile comunque ad un epoca successiva al concilio di Trento) si sia proceduto alla sistematica demolizione dell’intera abside originaria al fine di rettificare e prolungare il presbiterio nella forma quadrata che oggi si vede. Un’operazione sicuramente anteriore al 1737 che è l’anno in cui il vescovo Fortunato Palumbo commissionò al napoletano Giuseppe Bastelli la realizzazione del pregevolissimo altare maggiore, poi completato nel 1743, che doveva servire da separazione e filtro tra la parte celebrativa riservata ai fedeli e la parte riservata al coro dei canonici.
Non sappiamo dove siano finite le pietre che formavano l’abside semicircolare smontata, ma la sopravvivenza sul luogo originario di una pietra ad andamento curvo rivela che, anche nel caso di Trivento, per la edificazione della parte curva si sia utilizzato materiale di spoglio romano proveniente da un mausoleo circolare.
Circostanza certamente consueta in epoca romanica, come si riscontra anche nella vicina S. Maria di Canneto, nelle cattedrali di Isernia, Venafro e nelle altre basiliche absidate del Molise.

 

In genere la costruzione della cripta serviva anche ad alzare il livello del presbiterio in maniera da permettere la creazione della fenestella confessionis, utile per i fedeli ad osservare l’interno della cripta senza entrarvi.
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Nel nostro caso, che non è infrequente nel Molise, essendo molto basso il livello di appoggio della parte absidale, i costruttori si trovarono costretti a tenere un livello corrispondente al piano di appoggio naturale con la conseguenza di avere la volta della cripta di poco sollevata rispetto al piano delle navate della chiesa.
D’altra parte i caratteri geometricamente precisi della cripta, la bontà di esecuzione delle strutture e la perfetta rispondenza a particolari criteri liturgici non lasciano dubbi che essa abbia fatto parte di un programma costruttivo che era certamente coerente con la rimanente parte della cattedrale.
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Sono convinto che la soluzione al problema delle interpretazioni si nasconda all’interno dei pilastri quadrati che separano le tre navate, essendo ipotizzabile che a Trivento sia accaduto ciò che è accaduto in altri edifici ad impianto basilicale (come Venafro ed Isernia) quando le colonne circolari furono rinforzate con una trasformazione in pilastri.

 

La richiamata dedicazione ai santi Nazzario e Celso del 1076 è dunque la straordinaria conferma che anche la cattedrale di Trivento abbia fatto parte di quel grandioso programma di riforma architettonica voluta dall’abate Desiderio di Montecassino nell’ambito di un disegno riorganizzativo di tutto l’ampio territorio che era fortemente condizionato dall’attività del cenobio benedettino e che sostanzialmente coincideva con quasi tutta la Longobardia Minore.
In questo contesto ebbe particolare sviluppo il culto per i santi Nazzario e Celso ai quali furono dedicati numerosi monasteri in area longobarda, molti dei quali direttamente amministrati da Montecassino. Solo per esempio ricordiamo quello di Roccapipirozzi che qualche anno prima, nel 1039, era stato donato dal monaco Nantaro a Montecassino proprio nell’ambito di una riorganizzazione generale del territorio monastico nel momento in cui il sistema longobardo stava per essere definitivamente soppiantato da quello normanno. Monastero che l’abate Desiderio fece ricordare nelle porte di bronzo della nuova basilica cassinese fuse a Costantinopoli nel 1066.

 

E sul carattere normanno degli elementi architettonici della Cripta di Trivento vi è poco da dubitare. Anzi probabilmente la sua edificazione costituì il prototipo in sede locale delle altre cripte di cui abbiamo ampia conoscenza a Petacciato, Guardialfiera (forse coeva perché iniziata nel 1061), Guglionesi, Campomarino, Petrella Trifernina, tutte certamente riconducibili all’epoca normanna.

 

A Trivento la sopravvivenza di rocchi di colonne e capitelli romani nonché di pietre squadrate appartenute a edifici classici semplificarono l’attività dei costruttori che, pur seguendo un disegno architettonico ben preciso, aggregarono elementi che, collocati in un nuovo contesto, vennero a definire con particolare efficacia una nuova architettura.
Perciò, mentre nelle altre cripte molisane vediamo materiale di prima lavorazione, nella cripta di S. Casto troviamo utilizzati capitelli ionici o compositi, fusti di colonne romane e cippi funerari prelevati nella campagna del municipio romano integrati da capitelli a stampella con girali fitomorfici e, soprattutto, capitelli sfero-cubici (cosiddetti renani per l’uso che se ne fece in quella parte d’Europa).
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Proprio la presenza dei capitelli a stampella e delle decorazioni a girali fanno immaginare che si tratti di elementi di spoglio più antichi perché riferibili ad un edificio demolito di epoca longobarda i cui motivi ornamentali risentono di influenze bizantine.
In termini più espliciti, nel 1076 si procedette ad una completa ricostruzione della cattedrale di Trivento che sicuramente prima aveva un impianto di gran lunga più modesto. Gli elementi architettonici di spoglio, già utilizzati per una basilica che potrebbe aver avuto una cripta dalle forme sicuramente diverse e comunque priva di colonne, furono riutilizzati solo nella cripta ed integrati con capitelli sfero-cubici su cui si impiantarono le volte a crociera che sono sopravvissute anche alle trasformazioni post-tridentine.
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La cripta venne così a costituire il luogo fisico per la conservazione delle reliquie dei Santi Nazzario e Celso, nuovi titolari della Cattedrale, che probabilmente si aggiunsero a quelle preesistenti di S. Casto, se è vero che dall’epoca di Arechi II una parte di quest’ultime sia sopravvissuta a quella traslazione che la tradizione attribuisce alla volontà di Madio Carioso, il leggendario nobile beneventano che le avrebbe trasferite nella chiesa di S. Andrea a Benevento.
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Nulla si dice delle ossa di S. Vittore, ma anche in questo caso la presenza di questo santo può trovare una logica solo se riconduciamo all’abate Desiderio una forte determinazione per la ricostruzione della nuova cattedrale di Trivento.
L’esempio di S. Vittore era per Desiderio un riferimento talmente significativo che egli non esitò a prendere il nome di Vittore III quando si sedette sul trono di Pietro.
Nella Chiesa cattolica si venerano oltre 50 santi che si chiamano Vittore, ma la nostra attenzione può essere circoscritta solo a due di essi: S. Vittore di Capua e S. Vittore I papa. Ambedue ci riconducono a Montecassino e più precisamente all’epoca di Desiderio.
E’ ampiamente documenta la presenza di reliquie di S. Vittore vescovo di Capua all’interno del Monastero di Montecassino ed è noto che il centro urbano di S. Vittore del Lazio, a pochi chilometri da Cassino, riconosca in questo santo il suo patrono e l’origine del suo nome. La sua festa si celebra il 2 aprile, giorno della sua nascita.
Egli, contemporaneo di S. Benedetto, nel 541 fu successore di S. Germano (che peraltro fu il patrono e titolare dell’omonimo centro urbano che si era sovrapposto all’antica Casinum ai piedi di Montecassino).
Vittore I, papa dal 189 al 201, invece, ebbe particolare importanza per Desiderio che, come abbiamo detto, ne assunse il nome quando fu fatto papa. Appare evidente che nell’ambito di una riorganizzazione generale in cui il culto per le reliquie, a pochi anni dallo scisma del 1054 (per la questione del “Filioque”), assumeva un aspetto fondamentale, l’abate Desiderio avesse una particolare attenzione per un santo papa che storicamente costituiva, sul piano dottrinario, un esempio di rigida contrapposizione ad alcuni movimenti orientali (i quartodecimani e gli adozionisti) che non concordavano con le indicazioni romane.
Ma c’è un particolare che certamente fa propendere per Vittore I papa l’individuazione del santo venerato a Trivento. La data della celebrazione liturgica che è il 28 luglio. Cioè la stessa dei santi Vittore e Celso.
Tutte queste complicazioni cultuali, che nella realtà erano semplificazioni teologiche, avvenivano nell’ambito di una visione in cui il monachesimo occidentale ribadiva il forte senso di attaccamento al proprio patriarca Benedetto in contrapposizione agli scismatici di Oriente.
E’ noto che l’abate Desiderio abbia esercitato la sua funzione papale spostandosi poche volte da Montecassino e che S. Benedetto abbia costituito un riferimento costante della sua attività sacerdotale.
Questa circostanza spiega il motivo per cui, nella cripta di Trivento, accanto alla figura di Cristo sulla croce tra Maria e S. Giovanni, appaia l’immagine quasi sproporzionata del santo di Norcia.
Si tratta di uno dei due frammenti di affresco miracolosamente scampati ad un’opera di ripulitura effettuata in un’epoca sconosciuta, quando ormai la cripta aveva perso una funzione collegata ad azioni liturgiche per diventare semplicemente ossario collettivo.
Sulla parete che separa l’abside di destra sopravvive infatti una pittura i cui elementi sembrano essere tratti integralmente da un codice miniato. La cosa non era insolita per quei tempi, ma nel caso di Trivento l’assenza di un qualsiasi tentativo di inquadrare la composizione in un contesto architettonico o in un programma iconologico lascia supporre che sia stato proprio un amanuense a realizzare l’opera.
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Non è facile stabilire con esattezza l’epoca di realizzazione e solo la posizione a Y della figura di Cristo in qualche modo esclude che si tratti di una rappresentazione anteriore all’epoca normanna. Nel Molise abbiamo un esempio straordinario di crocifissione nella cripta di Epifanio a S. Vincenzo al Volturno, dove gli elementi prospettici e il contesto architettonico sono chiaramente condizionanti. Le braccia del Cristo, però, secondo una prassi consueta all’arte bizantina e longobarda, seguono la posizione dei bracci della croce. Perciò tra le due rappresentazioni non esiste alcun nesso. Addirittura possiamo affermare con una ragionevole sicurezza che le pitture di Trivento non rispondano ad un programma pittorico complesso come quello apocalittico di S. Vincenzo al Volturno, quanto piuttosto abbiano fatto parte di una sorta di iconostasi in cui richiamare, secondo la tradizione iconodula, le immagini dei santi perché con il loro simulacro, fossero fisicamente presenti nel momento della liturgia della celebrazione quando i loro nomi, uno per uno, vengono pronunciati solennemente dal celebrante.
S. Benedetto, con una lunga barba bianca, è rappresentato negli abiti eremitici con una cocolla nera sulle spalle da cui fuoriesce uno scapolare. Regge con la sinistra il libro della Regola e una borraccia e con la destra una crozza, che è il simbolo orientale del potere dell’abate-vescovo che nei tempi successivi verrà sostituito dal pastorale. La sua aureola è contornata da un doppio filo rosso che limita una linea polilobata.
Anche l’assenza di scanalature nell’aureola, che sono tipiche delle pitture angioine, fanno anticipare la pittura al periodo normanno e bene si adattano all’epoca dell’abate Desiderio che contribuì alla diffusione dei codici miniati. E non solo nel cenobio cassinese.
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Di fronte, su uno dei pilastri centrali, sopravvive invece l’immagine di un santo la cui identificazione, sebbene messa in dubbio da quasi tutti gli autori, mi sembra abbastanza semplice. Che si tratti di un santo diacono protomartire non vi sono dubbi. La dalmatica, con la caratteristica pezza liturgica rettangolare sul petto, il caratteristico colletto applicabile e i clavi che scendono dalle spalle, lo attesta in maniera inequivocabile. Le possibilità di scelta si limitano ai santi diaconi e protomartiri Lorenzo di Roma, Stefano di Gerusalemme e Vincenzo di Saragozza i cui attributi, legati alla loro particolare forma di martirio, sono rispettivamente la graticola, le pietre e la macina di molino.
Poiché in genere S. Stefano è raffigurato con una pietra conficcata nella testa, S. Vincenzo con una macina di molino attaccata al collo e S. Lorenzo con una graticola tenuta con la mano destra, non vi sono dubbi che nel nostro caso si tratti di quest’ultimo. D’altra parte se si osserva con attenzione la parte del braccio destro si notano due linee verticali che bene si adattano ad essere l’impugnatura di una graticola la cui immagine è ormai del tutto scomparsa.
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Il vescovo di Trivento in una delle formelle del portone della cattedrale di Benevento (XIII sec.)

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  • candida ha detto:

    vorrei vedere delle foto della madonna dipinta davanti all’entrata della cattedrale, non sono riuscita a trovarne nemmeno una e la sua storia grazie

  • Franco Valente ha detto:

    domani 8 giugno abbiamo un incontro con l’archeo-club proprio davanti alla cattedrale di Trivento. Provo a fotografarla, ma non credo che sia particolarmente antica.

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