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L’Annunziata di Venafro

By 29 Novembre 2007 Luglio 16th, 2016 9 Comments

sintesi estratta da F. VALENTE, La Chiesa dell’Annunziata ed altre chiese laicali di Venafro, (in preparazione)

(Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons)

A Venafro, il primo gennaio del 1386, sette confratelli della Fraterna dei flagellanti si erano riuniti alla presenza del notaio Ciccio Antonio de Parma da S. Vittore per la stesura dell’atto ufficiale di fondazione della Confraternita dell’Annunziata. I sette, tutti nativi di Venafro, erano Giacomo Lente, Cicco Referta, Antonio de Preite, Nicolagiovanni de Muribus, Pietro Cortellese, Simone Ventre, Onofrio Anto­nio Cedule.

Per comprendere l’importanza dell’iniziativa bisogna tener conto che nel XIV secolo il territorio venafrano era inte­res­sato da importanti percorsi che servivano a colle­gare il Meridione d’Italia alle aree del Nord se­guendo la dorsale ap­penninica, esclu­dendo l’uti­lizzo delle insicure strade costiere.

Questo può spiegare come i sette venafrani fondatori della Confraternita siano entrati in contatto con il più vasto movimento del Flagel­lanti e come essi siano riusciti a coinvolgere la collettività attorno alla loro attività costruttiva che, peraltro, pre­supponeva un forte impegno economico per la edificazione della chiesa dell’Annunziata, sicura­mente più grande delle chiese parrocchiali dell’epoca.

L’iniziativa in sede locale dovette avere succes­so e favorì la nascita di un buon numero di confraternite, tra la fine del XIV secolo ed i primi del XV, che in pratica coinvolgeva la quasi totalità della popolazione calcolabile in circa 3.000 unità.

La chiesa dell’Annunziata, la Lenziata per i Venafrani, rappresenta un misto di sentimento religioso e valori civici per il fatto di essere non solo il concreto riferimento popolare di cerimonie liturgiche, ma anche il luogo fisico dove si conserva il busto di S. Nicandro e conseguentemente il luogo di inizio e fine delle cerimonie legate alle celebrazioni del Santo. Ovviamente tale somma di valori difficilmente può essere percepita da quel visitatore occasionale che voglia limitarsi a valutare gli aspetti artistici o architettonici solo per quello che appare ai suoi occhi e a dare un giudizio che non tenga conto delle interazioni che si creano tra il monumento ed il suo naturale fruitore.

Certamente l’attuale abbandono del nucleo antico venafrano non rende l’idea delle ragioni che hanno determinato l’esistenza e la sopravvivenza di tale monumento, ma scavando nella memoria collettiva e ricercando le motivazioni di particolari forme della pietà popolare si può, con maggiore chiarezza, analizzarne i singoli aspetti per cogliere, alla fine, il senso globale del complesso sia per gli aspetti artistici o architettonici che hanno riferimento con l’articolato quadro delle evoluzioni della più vasta cultura artistica o architettonica, sia per le forme devozionali che si caratterizzano anche in rapporto alla tradizione religiosa locale.

Sia nell’uno che nell’altro caso non si può esaminare l’Annunziata come un fatto episodico essendo essa un elemento condizionato nel suo esistere da circostanze ora particolari, ora generali.

Come per quasi tutti gli episodi di architettura, anche in questo caso l’analisi dei segni visibili ci permette di individuare percorsi culturali e tradizioni religiose sui quali la sua forma apparente si colloca facendo intuire le peculiarità di altri episodi architettonici che si pongono su tali percorsi, prima e dopo dell’Annunziata, dentro e fuori dell’ambito cittadino

L’architettura

Ci troviamo di fron­te ad un edificio costituito da una serie di so­vrapposizioni intervenute nel corso dei secoli. Però, nonostante che la chiesa si sia cambiata più volte nella forma, nella concezione spaziale e nel suo rapporto con il nucleo abitato circo­stante fino ad omogeneizzare caratteri diacronici, non è difficile riuscire a ricostruire le sue fasi più importanti.

Prima di tutto va considerato il suo orientamento ed il suo impianto. I maestri costruttori, intorno al 1386, si trovarono ad avviare l’impresa all’interno di un nucleo urbano già quasi del tutto saturo di abitazioni e certamente i primi confratelli dovettero procedere all’acquisto di una serie di casupole che in qualche modo si allineavano sul limite di una strada che ripeteva un tessuto urbano precedente.

Anche in assenza di architetture di grande pregio, uno dei punti più suggestivi del centro antico venafrano è la piazzetta antistante la chiesa dell’Annunziata. L’aspetto attuale corrisponde, salvo un paio di interventi recenti, alla situazione della fine del XVIII secolo ed a tale epoca può riferirsi la sua ideazione, anche se uno spazio libero esisteva già dal XIV secolo, sebbene in funzione di una diversa composizione urbana. Essa è limitata da quattro facciate la cui disposizione ci fa riconoscere un intervento non casuale e certamente finalizzato da accompagnare l’osservatore all’interno della chiesa attraverso semplici ma abili soluzioni architettoniche.

La definizione prospettica dei tre accessi alla piazza sembra derivare dalla volontà di obbligare chiunque transiti per essa a rivolgersi alla facciata della chiesa in maniera da restarne presi. Provenendo da via Cavour, il corpo avanzato della casa che si affaccia sulla piazzetta, lungo via De Utris, evita una fuga laterale alla chiesa orientando lo sguardo in maniera decisa verso la chiesa stessa. L’avanzamento del corpo di fabbrica corrisponde ad un intervento settecentesco, sicuramente contemporaneo alle grosse modifiche apportate al monumento nel 700, e si rifà ad una tipologia edilizia particolarmente interessante, molto comune nella zona che vede la formazione di una cortina muraria avanzata rispetto a quella originaria in maniera da inglobare, nell’intercapedine che andava a formarsi, la scala che originariamente era scoperta.

La stessa cosa accade per l’accesso da via della Vergine dove lo spostamento dell’asse visivo avviene mediante la rotazione della facciata della casa opposta al prospetto principale della chiesa che accompagna e indirizza l’osservatore all’interno della piazza e in particolare verso l’Annunziata.

Altri elementi concorrono a far pensare che ogni piccolo particolare rientri in un discorso più ampio. Utile a tale proposito è l’analisi dei rapporti tra interno ed esterno della chiesa a dimostrazione che lo studio dei percorsi non si è esaurito solo in funzione dell’entrata in chiesa, ma continua in maniera interessante anche nell’uscire da essa. Il prospetto della casa di fronte risulta modificato nel 700 con l’avanzamento della sua facciata a chiusura di una scala esterna evidentemente realizzatavi a seguito di una sopraelevazione. In tale nuovo prospetto è stata ricavata una loggetta a due arcate, asimmetrica rispetto all’intera facciata, il cui pilastrino centrale corrisponde in maniera esatta all’asse longitudinale della chiesa. In questo modo, dall’interno della chiesa, la parte di casa contenente la loggetta diventa il fondale del cono visivo, inquadrato e delimitato dall’apertura del portale.

Un asse visivo che, però, non può considerarsi definitivo in quanto, raggiunto il centro del portale della chiesa e guadagnata quindi una prospettiva aperta su tutta la piazzetta, interviene sul fondale un elemento architettonico imprevisto, cioé il campanile della chiesa di Cristo, in apparenza estraneo alla piazza, ma che invece assume la funzione di chiusura prospettica dell’unica visuale aperta per chi esce dalla chiesa.

E’ da notare che il campanile chiude visivamente, in maniera perfetta, lo spazio libero tra le due facciate delle case soltanto quando l’osservatore si pone in corrispondenza del centro del portale della chiesa. Va aggiunto che anche la casa Melucci interviene, per lo stesso punto di osservazione, ad accentuare l’elemento verticale ponendo una serie di aperture che sono in continuità assiale delle aperture del campanile di Cristo.

Le chiese di Cristo e dell’Annunziata storicamente sono legate tra loro essendo esse nell’origine sedi di quelle confraternite ove si assolveva una funzione sociale diversa da quella svolta nelle parrocchie. Vedremo più avanti nel trattare della chiesa del Corpo di Cristo che già dal XVI secolo le due chiese, quando avevano una forma diversa da quella attuale, addirittura avevano una funzione complessiva alternativa alla Cattedrale, che rimaneva troppo distante dal nucleo urbano, per il fatto che si era deciso di dividere in esse le più importanti cerimonie liturgiche prima accentrate nel Duomo. Nella chiesa di Cristo infatti, a partire dal 1560, si conservavano e si distribuivano i Sacramenti del Battesimo, del Viatico e della Estrema Unzione, mentre nella chiesa dell’Annunziata si svolgevano le pubbliche funzioni, Missioni, prediche, pubblici ringraziamenti e preghiere. Questo discorso che era unitario nella Cattedrale, per necessità pratiche si era diviso utilizzando i due episodi architettonici delle chiese laicali. La particolare e casuale posizione fortemente condizionata dal preesistente impianto urbanistico romano e medioevale, offrì lo spunto nel XVIII secolo per una ricucitura formale a scala urbana delle due funzioni liturgiche staccatesi dalla Cattedrale.

Per ottenere un quadro prospettico di grande effetto fu privilegiato l’asse proveniente da Roma, esterno alla città, che avrebbe permesso di utilizzare il particolare posizionamento delle due chiese rispetto all’asse visivo naturale.

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Infatti, per chi percorre tale via, per un buon tratto, i due campanili sembrano appartenere alla stessa chiesa apparendo come elementi laterali alla facciata dell’Annunziata e formando con essa un complesso unitario emergente, quasi in opposizione dell’emergenza del castello che sovrasta con la sua mole tutto l’abitato.

Non è difficile ricostruire il disegno della prima facciata dell’Annunziata che, secondo l’atto di fondazione, era già terminata alla data del primo gennaio 1386. Chi si pone sulla piazzetta antistante ha la possibilità di riconoscere ancora la composizione architettonica se esamina con un poco di attenzione il colo­re e la natura delle pietre che formano il prospetto attuale. Avrà modo di osservare che l’asse originale era decentrato verso destra rispetto a quello attuale e la facciata si configu­rava con un disegno a capan­na il cui punto di colmo superava di poco la me­tà dell’altezza odierna. Nella parte bassa il por­tale era rettan­golare, con un architrave sormon­tato da una lunetta perfettamente semicircolare della quale ri­mane la traccia evidente alla destra dell’at­tuale ingresso.

L’asse originario si individua osservando il pic­colo bassorilievo rettangolare che ancora soprav­vive nel sito originario e che vede rappresentato, in una cornice modanata in pietra scura, un vaso a due anse decorato a palmette. I tre gigli sono chiaro riferimento al simbolo della purezza che viene associato alla condizione di grazia di Maria al mo­mento dell’annunzio dell’Angelo e che diviene il motto della confraternita: Ave Gratia Plena.

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In occasione del suc­cessivo ampliamento seicentesco della chiesa gli elementi strutturali e de­corativi del por­tale trecentesco furono smontati e rimontati con la contemporanea integrazione di pezzi in marmo al disopra dell’originaria pietra di San Nazario e la sovrap­posizione della cornice alata. Nel 1386, sul lato a sinistra, perfet­tamente allineata con il fronte della facciata, era posta la torre campanaria di cui si ricono­scono, benché murati, il portale (ugualmente rettangolare con sovra­stante lunetta semicirco­lare), una monofora interme­dia e la bifora della cella campanaria.

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La facciata conteneva poi un grande rosone circo­lare che, per esigenze di simmetria, fu eliminato nel XVII secolo per essere riutilizzato come elemento decora­tivo al disopra della prima bifora della torre campanaria attuale e successivamente intona­cato nel secolo successivo quando il campanile fu sopraelevato. Abbiamo avuto la possibilità di scoprirne l’esistenza solo durante gli ul­timi lavori di restauro quando è casualmente venu­ta fuori la forma circo­lare di una pietra traforata, molto rovina­ta. Vi abbiamo riconosciuto, all’in­terno di una sequenza di cerchi che in origine erano traforati per permettere alla luce di pene­trare, la figura di profilo dell’Arcangelo Gabriele e quella fron­tale della Madonna.

Davanti al portale, per evidenti esigenze planimetriche, esisteva una scalinata a più gradini. Se ne ha la certezza anche da una singolare disposizione testamentaria del reverendo don Camillo Iannone che nel 1573 stabilisce di lasciare all’Ave Gratia Plena una casa con lo letto, 20 piatti ed un cutturello per servizio di detta casa quando viene il Predicatore, e col peso d’una esequia l’anno per l’anima sua; e che il suo corpo sia sepellito sotto il primo grado della Porta grande.

L’impianto attuale, quasi totalmente ridisegnato nel Seicento, non ci permette, però, di ca­pire quale fosse l’originaria impostazione planimetrica, ma, sulla ba­se del confronto con altre chiese trecentesche possiamo con una certa sufficienza affer­mare che si trattava di un edificio ad una sola na­vata con terminazione finale ad abside semi­circo­lare il cui limite esterno non poteva supe­rare il filo dell’attuale fronte del presbiterio.

Sulla base dei rilievi effettuati abbiamo oggi la possibilità di poter meglio comprendere che la facciata sia stata realizzata nella seconda metà del Trecento utilizzando in gran parte materiale di spoglio del teatro romano, dal quale peraltro erano state prelevate, almeno due secoli prima, le pietre che servirono a fare il prospetto orien­tale e meridionale della Cattedrale. In partico­lare l’ipo­tesi trova conferma in quanto si riconosce la se­zione di uno dei gradini della cavea. Ma furono pure utilizzati reperti provenienti da diversi mo­numenti pubblici e privati, anch’essi di epoca ro­mana.

Nel corso del XVII secolo l’edificio venne ra­dical­mente trasformato con l’ampliamento della navata ed il conseguente inglobamento in facciata del vec­chio campanile. Questi lavori dovettero durare per tutto il secolo, come si desume dalle varie no­tizie riguardanti l’esecuzione di alcune parti e, co­me per la Cattedrale, la lettura di una piccola pie­tra ci permette di datare l’in­tervento collegandolo alla iniziativa del Priore Francesco Antonio Coppa. Al disotto della corni­ce orizzontale che divide i due piani della facciata, all’estremo sinistro, vi è una iscri­zione che dice semplicemente:

ANNO PRIOR.

FR. ANT. COPPA 1616.

Il Coppa dovette essere par­tico­larmente attivo nella gestione e nella organiz­za­zione della sua Confraternita.

Apprendiamo che nel 1618 Francesco Antonio Coppa era stato autorizzato a costruire una cappella nel secondo loco appresso alla cappella della Madonna, et proprio la cappella quarta appresso il campanello da intitolare a S. Carlo Borromeo, con l’impegno di decorarla conl’immagine del detto santo.

Lo troviamo ancora priore nel 1626, come si rileva da uno strumento notarile stipulato nella Sagrestia dell’An­nunziata. Con tale strumento Ursino Laurenti do­tava la Confraternita di A.G.P. di una consistente somma di denaro a condizione che gli fosse riser­vata per la sepoltura la cappella centrale a destra entrando alla chiesa.

Nel contratto si affidava pure l’ampliamento di cinque cappelle (… conforme le altre cappelle che sono fatte nove…) e le finestre che affacciano sulla strada. Notizie più precise della cupola le abbiamo solo con un contratto di acquisto del 1641 quando il priore Nicandro Orlando acquistò dal reverendo G.Battista Marsella cinque vani di una casa confinante con la chiesa per realizzare il presbiterio e la cupola che risulta già terminata (… clare videtur…) nel 1643.

La cupola è certamente la parte architettonica di maggior pregio dell’esterno della chiesa, pur se non si è in grado di attribuire una datazione più precisa alla sua progettazione. Il fatto, però, di poterla collocare sicura­mente nella prima parte del XVII secolo le confe­risce una importanza particolare e la fa ritenere sicuramente la più bella della regione. Impostata sui quattro pennacchi simmetrici del presbiterio, essa è costituita da tre parti ben distin­te ma stretta­mente e coerentemente correlate: il tamburo, la calotta, la lanterna. Il tamburo si di­vi­de in otto parti, separate e ritmate da altrettante coppie di paraste rinascimentali, sulle quali si aprono fine­stroni con cornice superiore ad arco spezzato. Parte del tamburo, e di conseguenza uno dei fine­stroni, fu ricoperto per il rifacimento del tetto della chiesa, che venne sollevato rispetto all’originario piano di ap­poggio seicentesco quando si opera­rono le so­stanziali trasformazioni alla metà del XVIII seco­lo.

La chiarezza di esecuzione e so­prat­tutto il di­segno dei particolari architettonici im­pongono di ricondurla ai caratteri stilistici dell’area rinascimentale romana di fine cinquecento. Le paraste, a forma di semipilastri, si concludono nella parte superiore con capitelli a volute ioniche collegate da ghirlande e motivi flo­reali nei quali sono inseriti anche composizioni di frutta. Nono­stante che il disegno sia di gran pre­gio per il fatto di ricollegarsi alla tradizione rina­scimentale più af­fermata, tuttavia la realizzazione nei particolari ri­sulta sotto certi aspetti piuttosto approssimata senza che, però, la composizione architettonica nel suo complesso risulti meno­mata. Dal ricco fascione, che limita il tamburo so­vrastandolo, si sviluppa la calotta compartita dai costoloni binati che, con l’andamento semicirco­lare, evidenziano anche formalmente le linee di forza che collegano la lanterna alla base.

La lanterna, anch’essa divisa conseguentemente in otto parti, presenta un raffinato disegno e costitui­sce non solo la conclusione architettonica di tutta la copertura, ma anche l’elemento strutturale, di rac­cordo e di sostegno, delle linee di forza della cu­pola che vanno a confluire nel punto superiore del cipollino, ove si appoggia la grande sfera di rame. Tutti gli elementi architettonici della cupola, dalle paraste fino ai piccoli contrafforti del lanter­nino a doppia voluta, sono in pietra porosa locale, volgarmente chiamata piperno.

Non è facile ricondurre ad un nome particolare la progettazione della cupola dell’Annunziata, ma alcuni indizi sono importanti per tentare di ritrovare chi abbia potuto influire in maniera determinante sulle scelte della committente confraternita.

Tra i vescovi più importanti che hanno avuto la cattedra di Venafro certamente va ricordato Ladislao d’Aquino che, come riporta il Sannicola, nacque a Napoli da nobile famiglia nella seconda metà del XVI secolo.

Era stato Cameriere d’onore di Pio V e dal successore papa Gregorio XIII fu eletto vescovo di Venafro il 30 ottobre del 1581.Resse pertanto la diocesi venafrana durante il papato di Sisto V che durò dal 1585 al 1590. Paolo V, nel 1607 gli affidò l’incarico di Nunzio Apostolico in Svizzera. Nel 1613 ebbe lo stesso incarico presso la Corte del Duca di Savoia. Sarebbe dovuto essere in Portogallo sempre come Nunzio Apostolico ma egli rifiutò per motivi di salute, sicché andò come governatore a Perugia nel 1614.

Continuava a reggere la diocesi di Venafro, quando nel 1615 fu creato Cardinale prete di S. Maria sopra Minerva. Morì a Roma il 12 febbraio 1621 durante il Conclave che portò alla elezione di Gregorio XV e fu sepolto nella sua chiesa romana di S. Maria sopra Minerva.

Proprio del periodo che parte dalla sua elezione a cardinale si ricordano in Venafro alcune opere, ma, soprattutto, fece effettuare notevoli interventi di consolidamento e di trasformazione della Cattedrale che allora cominciò ad assumere le forme barocche che l’hanno caratterizzata fino al momento dei restauri degli anni Sessanta.

Al tempo del vescovo d’Aquino risale la grande immagine dell’Assunta che fu fatta fare per l’altare maggiore e che, di recente restaurata, ancora si conserva all’interno della Cattedrale nell’abside centrale.

Ugualmente al vescovo napoletano va ricondotta l’esecuzione della Madonna della Povertà che ora si trova (semidistrutta) nella cappella dell’Ospedale Nuovo.

Verso la metà del Settecento l’Annunziata venne modificata sostanzialmente nella sua spazialità in­terna con conseguente, parziale, mutamento anche all’esterno. Soprattutto si chiarì il rapporto tra in­terno ed esterno e si diede una definitiva conclu­sione architettonica ed urbanistica a tutto il com­plesso. I lavori durarono quasi 35 anni ed alla fine la chiesa venne a prendere la forma definitiva che ancora oggi la caratterizza.

Il portale principale, realizzato, come abbiamo vi­sto, utilizzando gli elementi di quello trecentesco, era stato già adat­tato alla nuova chiesa seicentesca con l’integra­zione delle parti in marmo e l’arco alato all’interno nel quale è posta la testa di un putto con le ali aperte. Forse settecentesca è la pittura inserita nella lunetta con lo stemma della Confraternita dell’Ave Gratia Plena costituito da un cuore con una fascia che porta le iniziali A. G. P..

L’interno.

Certamente è significativa la presenza a Venafro di due stuc­catori milanesi, Carlo Giuseppe Tersini e Giando­menico de Lorenzi, che a più riprese lavorarono nella chiesa nel 1757 e nel 1759 a testimoniare un rapporto concreto con maestranze nordiche, con­seguenza probabile anche di una progettazione af­fidata ad un architetto che aveva rapporti con la cultura architettonica lombarda.

Nel 1987, allorché si dovette procedere alla ese­cuzione di lavori per adattare la calotta blindata a protezione della nuova statua di S. Nicandro nella antica nicchia dove era riposta la statua seicente­sca recentemente trafugata, si è po­tuto con mag­giore chiarezza comprendere che, in effetti, le opere eseguite dai costruttori Santoro e Bove ri­guardarono proprio l’integrazione architet­tonica tra il presbiterio e la rinnovata aula del po­polo.Si è accertato, infatti, che, dove ora il muro assume un andamento curvilineo, fino alla metà del sette­cento, la muratura dell’aula era rettilinea e peraltro era coperta di affreschi di cui si sono ri­trovate le tracce.In particolare proprio nella zona ove è si­stemata la nicchia sono ritornati in vista i partico­lari di una crocifissione e più precisamente due putti, di chiara fattura seicentesca, che regge­vano alcuni strumenti tra i quali si riconosce una tena­glia.

Da questo si desume che l’intervento settecentesco, es­sendo stato sostanziale, abbia determinato modifi­che strutturali a tutto l’edificio per cui non si può parlare di semplice operazione di ripristino, ma di una complessa ricucitura di elementi preesistenti, finalizzata all’ottenimento di risultati predetermi­nati sia in senso architettonico che ideologico.

I rapporti spaziali risultano alla fine di elevata raf­fi­natezza oltre che eccezionalmente pregnanti. La lettura della matrice ideologica diventa così im­mediata con il riconoscimento nella organizzazio­ne degli spazi interni della struttura esistente nei rapporti sociali dell’epoca. Tre elementi si ricono­scono con immediatezza in un preciso rapporto di dipendenza: Dio, Clero, Popolo. Tre elementi ar­chitettonici e spaziali sono la espressione formale di tale rapporto: la cupola, il presbiterio, la gran­de aula del popolo.

Quest’ultima si sviluppa su un impianto rettango­lare con gli spigoli arrotondati e con tre cappelle per lato che permettono di indivi­duare i pilastri delle pareti laterali. L’ampia lamia, realizzata con una incannucciata di 10.200 canne, raccordata agli spigoli curvi dell’impianto a forma­re un grande catino, delimita la parte superiore ac­cogliendo gli stucchi ed il grande affresco centrale con la Ma­donna nella gloria dei Santi. L’effetto complessivo è di straordinaria efficacia: la volta dell’aula del popolo sembra tenersi gonfiata da un soffio lumi­noso che penetra dal tamburo della cu­pola attra­versando la parete sfondata del presbi­terio. La formale assenza delle arcate centrali nella parte del grande affresco accentua la sensazione di assoluta lievità della copertura che in tal modo non sembra poggiare sui pilastri quanto piuttosto essere trat­tenuta e tirata verso il basso per contra­stare la spinta che la luce provoca verso l’alto. Un risul­tato che trova riferimento in una tematica partico­larmente presente nel barocco d’Oltralpe che non fu estraneo all’architettura del Regno di Napoli no­tevolmente influenzata per la presenza di archi­tetti che a tale filone si ricollegavano e che vide nelle opere di Domenico Antonio Vaccaro una delle espressioni di maggior rilievo.

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Lo spazio, con l’applicazione di tali principi spaziali, di conseguenza risulta autonomo e, al limi­te, completamente individuato, ma non solo per raggiungere una soluzione formalmente coe­rente. L’obiettivo ideologico evidentemente è più com­plesso e la funzione di raccolta del popolo nell’aula viene ricondotta alla necessità di perve­nire alla luce mediante l’intervento di quella classe so­ciale, il clero, deputata ad assolvere tale funzione. Lo sfondamento verso il presbiterio, che è il luogo ove il clero esprime la propria funzione con la celebrazione liturgica, è realizzato con l’abile in­terruzione del ricco fascione delle cornici dell’aula. L’occhio è così trascinato nel vortice della continuità delle linee, ricollegandole anche dove esse si interrompono, all’altezza del presbi­terio. D’altra parte sul presbiterio si concentra la massa di luce diffusa proveniente dalla cupola in un contrasto chiaroscurale accentuato dal fatto che la luminosità naturale delle finestre che si af­facciano sull’aula del popolo veniva notevolmente ridotta mediante quelle velature che in parte oggi sono state eliminate. Ancora più efficace tale ef­fetto all’ultima ora prima del tramonto quando il sole, calando, penetra quasi orizzontalmente at­traverso il finestrone della facciata (vero e proprio riflettore) per illuminare la zona del presbiterio.

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Con verbale del 1762 tra la confraternita dell’Ave Gratia Plenae quella di S. Antonio si concluse un accordo per la concessione all’interno dell’Annun­ziata di un altare dedicato al santo di Padova. Il documento è utile per alcune considerazioni che sono importanti per definire quali opere fossero in esecuzione a quell’epoca nel complesso laicale. La confraternita di S. Antonio, fondata nel 1448, era stata precedentemente ospitata dai monaci france­scani fino al 1643, quando trasferirono il loro alta­re all’interno della chiesa dell’Annunziata con non piccola spesa. Nel campanile, che, come si è vi­sto, riteniamo essere alla metà del XVII secolo più basso di quello attuale, posero una campana che serviva a richiamare i confratelli per tutti quegli esercizii a loro convenienti.La stessa confrater­nita, avendo poi contribuito alla elevazione del nuovo campanile, cioè alla sopraelevazione di quello preesistente, acquisì il diritto a tenere per sempre l’altare di S. Antonio, pena la restituzione della somma impegnata, valutata in quaranta du­cati.

Dunque, la costruzione dell’altare di S. Antonio ri­sale al 1761 ed a quell’epoca la chiesa dell’Annun­ziata risultava già interamente trasformata nella sua architettura, benché ancora da completare le cappelle laterali ed altre opere di arredo interno.

L’organo della chiesa fu terminato nel 1784 dal maestro organaro Nicola Abbate della città di Ai­rola, come risulta da una copia della ricevuta del pagamento effettuato il 18 febbraio di quell’anno davanti al notaio Alessandro Vitelli di Napoli. Per quest’organo dovette insorgere anche qualche lite tra la Confraternita di A.G.P. ed il costruttore prima che lo stesso venisse terminato; in­fatti leggiamo che nel 1782 si dovette impegnare una somma per la lite che si rattrova nella G.C. della Vicaria per l’organo nuovo.

I candelieri, ancora esistenti, furono fatti fare a Napoli da Nicola Colucci e risultano pagati nel 1781 e nel 1782.

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Gli affreschi di Paulo Sperduti

La confraternita dell’Ave Gratia Plena compì uno sforzo economico non indifferente per completare le decorazioni interne attraverso un ciclo di pitture che furono affidate all’artista Paulo Sperduti di Arpino, di cui non si conoscono altre opere oltre quelle di Venafro. Lo Sperduti era stato allievo di Agostino Masucci a Roma. Luigi Vanvitelli e Francesco De Mura lo avevano indicato alla giunta degli Allodiaci per le decorazioni della reggia di Caserta insieme ad ad altri illustri artisti come Giacinto Diano, Fedele Fischetti e Crescenzo La Gamba.

Nell’anno 1758 furono affrontate le prime spese per le pitture del coro e della lamia per comples­sivi 700 ducati e nell’anno seguente si concluse il rapporto con il pittore, che evidentemente aveva compiuto tutta l’opera con soddisfazione dei committenti.

Il ciclo di affreschi, che ci è pervenuto pressoché intatto, salvo una lunetta della lamia centrale crollata negli anni Settanta, ci permette di espri­mere un giudizio complessivo che tiene conto sia delle peculiarità artistiche di esso, sia del pro­gramma iconologico che sta alla sua base. Sul piano strettamente pittorico l’opera dell’artista ar­pinate non presenta certamente caratteristiche di pregio particolare soprattutto nella esecuzione delle figure. Il tentativo di attingere ad una conso­lidata tradizione rinascimentale, con particolare ri­ferimento al gigantismo michelangiolesco, non si concilia con il risultato finale che presenta una se­rie di discutibili figurazioni individuali che denota­no una difficoltà nellasoluzione plastica dei per­sonaggi rappresentati. Al contrario, sia la geome­tria delle masse, sia l’effetto coloristico comples­sivo sono di pregio notevole e comunque determi­nano un risultato finale di grande effetto. Certa­mente lo Sperduti lavorò su un programma icono­logico ben preciso che fu predeterminato, e quindi imposto, dalla confraternita. Un programma che si sviluppò tenendo conto delle finalità dottrinarie legate, prima di tutto, alla esaltazione del ruolo di Maria, Madre di Dio, nell’ambito della cultura re­ligiosa che legava i confratelli dell’Ave Gratia Plena.

L’elemento esaltante di tutto il ciclo è certamente il grande pannello centrale che impegna l’intera superficie della grande aula del popolo e che vede rappresentata Maria Assunta in cielo nella gloria di Dio e dei Santi. Tutte le altre figurazioni, sia racchiuse nelle unghie delle volte, sia nei pennacchi della cupola, sia nei riquadri ricavati tra gli stucchi delle decorazioni, non sono altro che un discorso pre­paratorio alla scena finale.

Una lettura puntuale di tutte le figurazioni, rag­gruppando organicamente i vari temi sviluppati, ci permette di ricostruire la logica generale della composizione.

Certamente lo Sperduti, e per esso colui che aveva concepito il programma pittorico, tenne in consi­derazione le preesistenze di composizioni artisti­che che erano state riadattate alla nuova architet­tura e che vale la pena richiamare. Oltre le figura­zioni che abbiamo già esaminato relative agli altari del Crocefisso, di S. Antonio e dei Santi titolari, che erano stati scelti sulla base delle cappellanie, dei benefici e degli juspatronati ormai consolidati storicamente con concessioni e diritti confermati in sede di rinnovo dell’architettura della chiesa, vanno tenuti in considerazione il primo altare a sinistra (in cornu evangelii)dedicato a S. Cateri­na d’Alessandria e quello maggiore dell’Annuncia­zione. Sia il primo che il secondo contengono due quadri che preesistevano ai rifacimenti settecenteschi della chiesa.

Il primo rappresenta il cosiddetto matrimonio mi­stico di S. Caterina e vede rappresentata la santa egiziana che regge, insieme a Maria, il Cristo Bambino. La scena è definita come matrimonio mistico ed attinge ad una tradizione europea sicuramente posteriore al XIV secolo.

In genere nelle rappresentazioni più antiche Caterina viene rappresentata coronata, con la palma del martirio in mano e la ruota dentata a lato. Il matrimonio mistico è invece ripreso da una leggenda della sua vita maturata intorno al XIV secolo, allorché la tradizione popolare aggiunse altri episodi come quello che racconta che il padre le avesse lasciato in eredità un crocifisso d’oro, impegnando la figlia a non scegliere altro uomo che non possedesse la bellezza, la sapienza, la ricchezza e la nobiltà. Caterina tenne fede all’ordine e rifiutò ogni proposta di matrimonio finché la madre, preoccupata, la portò da un eremita che le mostrò un stanza con una pittura in cui compariva la Madonna con il Bambino in braccio. La notte, in quella stanza, Caterina cadde in estasi e le apparve il Bambino che, porgendole un anello quale sigillo dello Spirito Santo, la dichiarò sposa fedele di Cristo. Quando si svegliò ella aveva ancora l’anello al dito.

Di ottimo livello le ca­ratteristiche pittoriche e, sebbene sconosciuto il nome dell’autore, sulla base dei caratteri stilistici si può ritenere che l’opera appartenga ai primi anni del XVII secolo. Di sicuro l’altare dedicato a S. Caterina esisteva alla metà del Seicento per essere riportato agli atti del 1651 Ugualmente di grande livello è il quadro della tito­lare che rappresenta l’Angelo Gabriele che appare a Maria.

Il quadro dell’Annunziata

La figurazione posta sull’altare maggiore, evidentemente, si ri­ferisce al momento più significativo della vicenda umana di Maria, legata all’annunzio dell’Angelo Gabriele che la saluta pronunziando le parole Ave Gratia Plena, che furono prese comeemblema della confraternita dei Vattenti.

L’Angelo Gabriele è colto nel momento in cui sta per genuflettersi su una nuvola che lo tiene solle­vato rispetto al piano su cui poggia Maria, sorpre­sa a leggere un libro di preghiere che è su un leg­gio alle sue spalle. Sullo sfondo una balaustra an­ticipa uno squarcio di luce che apre su un pae­saggio agreste. In primo piano, sulla sinistra, un giglio fiorito in un vaso biansato richiama la pu­rezza della Vergine, prossima Madre di Dio.

Il quadro cinquecentesco dell’Annunziata, che dunque preesisteva alle trasformazioni settecentesche, fu esaltato nell’ambito della ricostruzione di tutto l’apparato scenografico dell’altare maggiore i cui elementi di maggiore efficacia sono le due colonne tortili di scagliola, ad imitazione di una pietra brecciosa rossastra, ed il movimentato timpano entro cui si inserisce un tondo con una immagine della Madonna Annunziata,sorretto da due putti.

A destra e sinistra dell’altare, sulle due pareti late­rali del presbiterio Paulo Sperduti collocò due grandi rap­presentazioni della Nascita di Cristo e della Nascita di Maria. Ambedue le composizioni sono am­bientate con costumi ed atteggiamenti tipicamente contemporanei all’epoca dello Sperduti, con l’in­serimento di personaggi dai panneggi svolazzanti ed una geometria generale che insiste in una ripar­tizione delle immagini secondo una sequenza di triangoli sui cui lati si allineano i contrasti chia­roscurali.

In ambedue i casi il punto di incrocio delle ipoteti­che diagonali del rettangolo teorico in cui sono inquadrate le scene coincide con l’immagine dei neonati, in un caso del Cristo Bambino, nell’altro di Maria. A sinistra la scena della Nascita di Cristo sembra tratta da un presepe napoletano, inserita com’è tra rocchi di colonne, angeli in volo, pastori in abiti dell’epoca ed uno zampognaro che si avvicina suonando alle spalle del tradizionale pastore con l’agnello sulle spalle. Assolutamente secondaria la figura di S. Giuseppe con il bastone fiorito, mentre risalta, per l’effetto luminoso accentuato, l’immagine del Bambinello tra le mani di una prosperosa Maria.

La parte centrale del soffitto della grande aula per il popolo è dedicato ad alcuni episodi fondamentali della Madonna con esclusione delle quattro semicalotte d’angolo, che sono occupate dalle rappresentazioni delle Virtù Cardinali, e delle lunette sui lati lunghi che contengono rappresentazioni dei vari aspetti dell’intelletto.

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Sull’organo, al disopra del finestrone, è posta la scena della presentazione di Maria Vergine al Tempio. Al lato destro vi è una delle quattro Virtù cardinali. Una donna, che rappresenta la Temperanza, aiutata da un angelo, doma un cavallo mentre un tetro angelo mostra un compasso, misura del tempo. Al lato sinistro la donna vestita di corazza dalle spalline leonine, simbolo della virtù cardinale della Fortezza, regge una grande spada con la quale ha appena abbattuto un capitello di una co­lonna mentre un putto regge un grande scudo cir­colare ed un altro trattiene con le briglie un leone.

Segue poi sul lato destro una serie di piccole rappresentazioni che completano il ciclo pittorico decorando le lunette ed i pennacchi della volta.

A conclusione della parete è rappresentata, nel semicatino della volta, la Giustizia avvolta in una voluminosa veste rossa mentre regge con la destra una spada sguainata e con la sinistra uno scudo circolare. In alto un putto regge una bilancia.

Sul lato sinistro la parete si conclude con l’ultima delle Virtù cardinali. Vi è rappresentata la Prudenza che regge un serpente nella mano destra mentre la sua immagine si riflette in uno specchio ovale mantenuto da due putti.

Al centro dell’arco principale è posta la scena dell’ascensione di Maria al cielo trasportata da una nuvola di an­geli mentre gli apostoli, stupiti, sollevano le brac­cia.

Sulla parte centrale dell’arco trionfale l’incontro di Maria con Elisabetta avviene dietro la balaustra di una scala a due rampe contrapposte e S. Giuseppe le osserva mentre sta scaricando ll fardello dal suo asino.

Di straordinario effetto il grande quadro centrale nel quale è rappresentata Maria nella Gloria di Dio e di tutti i Santi che viene incoronata Regina. Ol­tre un centinaio di figure disposte su più piani fanno da contesto all’immagine della madre di Dio che è avvolta di luce mentre Cristo ed il Padre­terno reggono una corona sotto lo Spirito Santo in forma di colomba. Attorno ad essi, seguendo un andamento a spirale, turbina una sequenza di angeli musici rappresentati mentre suonano organi, trombe, tamburi, tamburelli e corni. Più in basso una grande quantità di Santi sono stratificati su una sequenza di nuvole in prospettiva. Tra essi, oltre Adamo ed Eva, si riconoscono S. Lorenzo con la graticola, S. Pietro con le chiavi, i Santi Ni­candro, Marciano e Daria, protettori di Venafro, S. Giovanni Battista, una serie di Santi monaci (da S. Benedetto a S. Domenico, S. Antonio e S. Francesco), un Santo papa (probabilmente S. Gregorio Magno), Re Davide con la cetra. Vi è pure rappresentato S. Giovanni l’Evangelista quasi al centro, più in basso S. Marco con S. Matteo ed infine S. Luca che è visto mentre sta facendo il ritratto della Madonna. No­toriamente quest’ultimo è il protettore dei pit­tori perché, secondo la tradizione apocrifa, fece da vivo il ritratto di Maria. E’ molto probabile che lo Sperduti, seguendo una consolidata tradizione, nel rappresentare S. Luca nell’estremo angolo di de­stra, nella parte più bassa della composizione, ab­bia voluto in qualche modo firmare la sua opera eseguendo il proprio autoritratto.

Tre opere di Giacinto Diano

Terminate le opere di trasformazione interna e quelle di stuccatura generale, passò un buon nu­mero di anni prima che si completasse l’arredo degli altari, che rimasero spogli fino al 1771 quan­do nelle cornici furono inserite le pitture su tela di Giacinto Diano.Si tratta di tre opere che certa­mente furono realizzate su commissione della Confraternita di Ave Gratia Plena, pur se dalle copie estratte dai registri dei pagamenti non si ri­cava alcuna esitazione a favore dell’artista.

Giacinto Diano era nato a Pozzuoli nel 1731ed era per questo soprannominato il Pozzolano. Morì a Napoli nel 1804. Nel 1820 il Grossi, negli scritti sulle Belle arti nel regno di Napoli, espresse giudizi positivi conside­randolo un antici­patore del Neoclassicismo.

L’esame delle tre tele presenti nella chiesa dell’An­nunziata ci permette di approfondire, sia pure parzialmente, questo particolare aspetto della composizione dianesca e ci induce a rivedere con maggiore attenzione la sua opera, essendo eviden­te che i meccanismi adottati nelle pitture di Ve­na­fro sono rintracciabili, se non in tutte, in gran parte delle raffigurazioni che vanno dalla metà del settecento alla fine della sua carriera. Più precisa­mente sembra di poter riconoscere, nelle tre opere, un incastro modulare che utilizza come elemento di partenza un quadrato il cui lato di ba­se coincide con la base della composizione. Il suc­cessivo quadrato, costruito a quarantacinque gradi sui bracci superiori delle diagonali, determina così automaticamente l’apice della raffigurazione, ma solo dal punto di vista della geometria piana. Tale sovrapposizione però determina un particolare ef­fetto spaziale, in quanto genera una profondità prospettica per il fatto che le figure individuate dal quadrato posto con i lati a quarantacinque gradi, sembrano poggiare su un piano inclinato il cui as­se di rotazione coincide con il lato superiore del quadrato iniziale. L’effetto complessivo (e ciò ap­pare come la costante di tutte le composizioni di Diano) è quello della esistenza di un vortice, ov­vero di una spirale, che diviene l’elemento pertur­batore nella rigida composizione di partenza. In al­tri termini l’abilità del Diano sta nella capacità di costruire una regola rigida (il quadrato di partenza ed il quadrato sulle diagonali) che viene poi trasgredita attribuendo al piano geometrico una dimensione spaziale spiraliforme. Queste considerazioni ci portano di conseguenza ad attribuire particolare importanza alla scuola del Fuga e del Vanvitelli, che furono certamente tra i maggiori ispiratori della particolare visione spaziale del Diano. Molte sue opere sono rimaste fino ad oggi sconosciute alla critica storica e fra esse, oltre quelle di Ve­na­fro, dobbiamo ricordare le due grandi tele situa­te nella chiesa Madre di Frosolone.

Le tele di Venafro furono commissionate appositamente per gli altari dell’Annunziata e la Confraternita indicò esplicitamente i Santi che vi dovevano essere rappresentati

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Nel primo altare a destra è collocata la rappresentazione della Madonna del Carmine che tiene fra le brac­cia un Cristo bambino, seduta sulle nuvole ed at­torniata da putti angelici. Ai piedi si riconoscono S. Lucia che regge una patena sulla quale sono poggiati due occhi, S. Carlo Borromeo con gli abiti cardinalizi e S. Pietro con la tiara papale che è mantenuta, insieme alle chiavi della Chiesa, da un putto che è ai suoi piedi. La figura sull’estrema sini­stra è quella di un vescovo, S. Biagio di Sebaste, protettore dei cardatori della lana, riconoscibile, per questo,dal pettine di ferro del suo martirio che viene innal­zato dall’angioletto che gli è accanto.

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Il terzo altare a destra è dedicato all’Esaltazione della Croce. Una croce sollevata tra le nuvole da angioletti alati sovrasta la figura di un santo sacerdote negli abiti liturgici con pianeta dorata, fascia diaconale e manipolo su camice bianco. Si tratta di S. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, come è attestato dal motto AD MAIOREM DEI GLORIAM JESUS che si legge sul libro aperto, mantenuto da un putto, e che fa riferimento alle prime parole della regola della congregazione dei Gesuiti. Alle sue spalle un secondo putto si porta la mano al cuore mentre viene illuminato da uno sprazzo di luce con il monogramma crucisegnato JHS.

Sulla destra, nello stesso quadro, si vede S. Francesco Saverio, che è rappresentato inginocchiato, con il bastone di pellegrino e la conchiglia appuntata sulla spalla mentre davanti a lui un putto regge un candido giglio.

Alle spalle di Francesco Saverio si vedono un santo ed una santa di difficile riconoscimento. Il primo, comunque, è sicuramente un martire dei primi tempi della Chiesa, come si desume dalla palma che regge nella mano sinistra. Il volto imberbe e la lunga tunica azzurra coperta da un mantello rosso ci fa propendere per l’apostolo ed evangelista Giovanni. Nulla ci viene incontro per riconoscere il nome della santa che è dietro.

Il terzo altare a sinistra è dedicato a S. Anna che si vede assisa sulle nuvole mentre al suo lato sta la Madonna Bambina in posizione orante su una mezza luna attorno alla quale si è attorcigliato il serpente tentatore. Sulla sinistra l’angelo Gabriele mantiene un piccolo specchio rivolto verso Maria e dietro S. Anna è la figura di S. Gioacchino mentre in al­to lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, si regge a mezz’aria. In basso a sinistra S. Giovanni Battista, con il cartiglio dell’Agnus Dei avvolto at­torno alla croce, è semicoperto da un anziano S. Giuseppe riconoscibile dal bastone fiorito retto da uno dei putti che sta ai suoi piedi. Come per gli altri quest’altare nasce dalla fusione di precedenti cappelle.

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  • Francis Tiso ha detto:

    Caro Franco, Grazie per questa storia dell’ Annuziata. Apprezzo molto le foto dell’ interiore – incredibili! Ho fatto vedere a tutti qui in ufficio.
    Punto interrogativo liturgico: come è possibile conferire il Viatico in chiesa? Di solito la persona sta morendo, quindi spostarla in chiesa sembra improbabile. Vedi l’ articolo sul Viatico nella Guida Liturgico-Pastorale per Abruzzo-Molise per 2007, che da un po’ di contesto per la pratica storica del viatico. Cari saluti, d. Francis

  • Angela Piscitelli ha detto:

    Se tutti gli storici dell’arte e gli architetti avessero un decimo della passione che ha Franco Valente e un po’ della sua incredibile capacità di “raccontarci” i monumenti e farli vivere nel racconto per insegnarci ad amarli ed a rispettarli quanto sarebbe più bello il mondo!!ed anche migliore.

  • Franco Valente ha detto:

    Carissimo don Francis,
    prima di tutto mi fa piacere sapere che mi leggi dall’America….
    La questione che poni mi “costringerà” a pubblicare anche una sintesi sulla chiesa di Cristo.
    Intanto ho rettificato la data del trasferimento di alcune funzioni liturgiche dalla Cattedrale perché, per sintetizzare troppo, avevo scritto 1535 (che è invece la data di costruzione del cappellone del Sacramento alla Cattedrale), invece di 1560 (anno di effettivo trasferimento delle funzioni alle chiese di Cristo e dell’Annunziata.
    In quegli anni Venafro era tutta raccolta nel centro fortificato e la Cattedrale (notoriamente collocata fuori dell’abitato a circa un chilometro dal Castello) era difficile da raggiungere soprattutto nelle notti invernali.
    Poiché solo nella Cattedrale si conservavano l’Ostia consacrata e gli Olii Santi, si ritenne estrememente pericoloso (ma soprattutto scomodo) fare circa due chilometri tra andata e ritorno per garantire l’assistenza ai moribondi. Grazie alla munificenza di Giovanni Sfoca si costruì la nuova chiesa: “Lo che considerando un divoto cittadino lasciò nel suo testamento una casa acciò si convertisse in chiesa sotto il titolo del SS.mo Corpo di Cristo, ed in quella si conservassero e distribuissero in avvenire li Sagramenti di Battesimi ai bambini, Viatico ed Estrema Unzione agl’Infermi. Fu già edificata questa chiesa nell’interno della Città circa il 1560 e vi furono trasferiti i Sagramenti, riserbandosi la Cattedrale il solo jus di battezzare il primo infante che nasce dopo Pasqua di Resurrezione e di Pentecoste”.
    Intanto spero di rivederti presto in Italia!

  • Mary Coughlan ha detto:

    Thankyou for an outstanding article on this wonderful cathedral. I teach Fine Arts in High School and the photographs and explanations are of particular intrerest to me. I will be showing this to my students, for their enrichment in learning composition, for both painting and architecture. Grazie Mille!

  • Andrea Brunetti ha detto:

    Complimenti per questa pagina ricca di informazioni, una delle tantissime del suo ricco blog. Sono venuto a visitare la chiesa dell’Annunziata una settimana fa e ho notato soprattutto il quadro dell’Annunciazione sull’altare centrale. Allora mi domando: non è stato mai fatto un intervento su una probabile attribuzione per questo dipinto? Se esiste mi piacerebbe leggerlo, lei sicuramente sarà informato a proposito.
    Un cordiale saluto.
    Andrea

  • Franco Valente ha detto:

    Gentile Andrea,
    grazie per i complimenti!
    Il canonico Melucci riprendendo dal carteggio della confraternita di Ave Gratia Plena riferisce che al foglio 219 del libro magistrale di conti nell’anno 1686 si nota l’esito di ducati 7 al pittore milanese Carlo Giacinto Boccardi per il quadro della congregazione.
    Certamente sulla base di semplici considerazioni stilistiche appare difficile collocare alla fine del XVII secolo tale opera, anche perché nulla si conosce del richiamato Boccardi, pittore milanese.
    La notizia desunta dal libro dei conti è troppo scarna perché possa essere riferita con certezza al quadro della titolare. Contro tale possibilità gioca non solo l’esiguità della somma (che potrebbe essere, comunque, il pagamento di una quota), ma anche il carattere stilistico della composizione.
    In particolare sono i costumi che fanno anticipare almeno alla fine del XVI secolo, o al massimo ai primi del Seicento, la sua esecuzione.
    In particolare si veda la tunicella dell’angelo che proprio in Venafro ha due esempi consimili, anche se di basso pregio artistico, nelle due spallette della cappella della Deposizione della Cattedrale dove sono raffigurati gli arcangeli Raffaele e Michele e di cui si conosce la data di esecuzione fissata dall’epigrafe al 1583.
    Queste circostanze, ancora una volta, ci riconducono all’epoca di Ladislao d’Aquino e più precisamente al periodo in cui continuava a reggere la diocesi Venafrana mentre era contemporaneamente cardinale a Roma.
    Poi vi sono i soliti critici che dicono che è “baroccesco” e pensano di aver risolto il problema….

  • Franco Valente ha detto:

    Gentile professoressa Mary Coughlan,
    solo adesso prendo conoscenza del suo gradito commento.
    La ringrazio di cuore!

  • Andrea Brunetti ha detto:

    La ringrazio per la velocissima e precisa risposta. Sono ovviamente d’accordo sul periodo, sicuramente rientra nella produzione degli ultimi venti anni del Cinquecento o al massimo ai primissini anni del Seicento, è interessante il confronto con gli esempi datati della Cattedrale, che potrebbero costituire una meditazione fatta da qualche artista locale su questa “nuova” opera arrivata a Venafro. Insomma, mi sembra di capire, può essere una ipotesi per azzardare una datazione più precisa.
    Infatti, a proposito del “baroccesco”, ho letto sulla Guida del Touring un’attribuzione a Girolamo Imparato, non so da dove l’abbiano ricavata. Certamente è difficile fare un nome preciso su una base solamente stilistica, ma ancora una volta emerge come spesso, in assenza di altri riscontri, questa analisi stilistica può costituire l’unica strada di indagine…

  • Saverio Cortellino ha detto:

    Ho letto con grande attenzione lo scritto e mi sono soffermato anche sulle opere pittoriche illustrate. Avendo trattato, in sieme al mio amico Rocco, un argomento simile rigurdante ul pittore tranese del ‘700, non posso che congratularmi per la competenza e la sobrietà con cui è stato scritto il bell’articolo. I miei complimenti

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