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Isernia dai Longobardi agli Angioini

By 12 Settembre 2008 Agosto 23rd, 2016 One Comment

Isernia dai Longobardi agli Angioini

da Franco Valente, Origine e crescita di una città (1982):
Estratto e riveduto per Castelli, rocche e cinte fortificate del Molise. (Volume in preparazione) (Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons).

Si tratta di uno scritto “giovanile” degli anni Settanta,  che sicuramente va aggiornato e riveduto. Da allora ad oggi (sono passati quasi 4 decenni) non mi sembra che qualcuno si sia preoccupato di approfondire l’argomento o di aggiungere qualche novità.

isernia-pacichelli-blog.jpgG.B. Pacichelli – Isernia a volo d’uccello – Fine sec. XVII

Con la caduta dell’Impero Romano e con le invasioni barbariche l’assetto istituzionale dello Stato subì delle trasformazioni sostanziali che modificarono non solo la struttura politico amministrativa, ma anche la realtà etnico-sociale ed urbanistica.
Anche il paesaggio si modificò per la decadenza di quelle poderose strutture di cui i Romani avevano dotato sia le città che le campagne e che avevano costituito l’elemento essenziale, pratico e ideologico, per la conservazione del potere.
Alla disorganizzazione amministrativa fecero presto seguito carestie, pestilenze e incultura che portarono all’abbandono ed alla ricerca di spazi autonomi dove la piccola comunità, riconducendo l’organizzazione sociale a sistemi elementari di amministrazione, poteva mirare alla semplice sopravvivenza.
Le vecchie città, abbandonate per decenni, in alcuni casi addirittura scomparvero, in altri casi, come per Isernia, vennero solo parzialmente riutilizzate.

Con le case in legno e senza più acquedotti, le situazioni igieniche diventarono molto precarie.

L’urbanistica e l’architettura vennero ridotte all’essenziale e la stessa tecnica edilizia romana venne sistematicamente abbandonata soprattutto per la mancanza di capacità organizzative.

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Le mura in opera quasi-quadrata dello spigolo sud-occidentale

Tuttavia nel V e VI secolo Isernia pur nella generale disgregazione dei centri amministrativi politici delle città romane, riuscì a conservare, sebbene a livello ridotto, un suo ruolo di punto di riferimento nel territorio.

La presenza di un vescovo alla metà del V secolo ci garantisce la esistenza di una comunità in grado di organizzarsi autonomamente. A questo periodo dobbiamo far corrispondere una vera e propria rifondazione della città dove la presenza della Chiesa non fu solo motivo di coesione religiosa, ma anche la espressione di una volontà di ricostruzione della società civile.
Significativa è la sovrapposizione degli edifici di culto cristiano a quelli pagani che non rispondeva solo a motivi di ordine pratico, quale la riutilizzazione di edifici preesistenti, ma costituiva, perlomeno nelle intenzioni, la sacralizzazione di una nuova situazione sociale.
Nella serie di vescovi isernini, il primo vescovo di cui si ha certezza è Eutodio, che partecipò nel 465 ad un concilio di papa Ilario I.

Sotto Simmaco, nel 499, un altro vescovo di Isernia, Mario, prese parte ad un altro concilio romano.

Sono queste le uniche notizie di questo secolo che possono esserci di qualche utilità per comprendere e per supporre cosa fosse accaduto nella città.
Gli scavi archeologici alla Cattedrale hanno inequivocabilmente confermato che la Cattedra vescovile non ha mai cambiato sede e che le varie basiliche si sono sempre sovrapposte sull’antico tempio che viene in genere ricondotto al tempo della colonia latina.
Certamente sarà difficile trovare vestigia di questa fase del medioevo, però è significativo che nella parte alta della città (dalle parti dell’attuale Fontana fraterna) non si sia trovata traccia, almeno fino ad oggi, di un castello.
La motivazione può essere desunta confrontando quanto in parallelo si è verificato in Venafro, ove la presenza di un Vescovo è documentata dal 499.
Appare in questo caso abbastanza chiaro che nell’alto medioevo si siano creati due poli amministrativi distinti tra loro, uno di carattere religioso su colle S. Leonardo con la Cattedrale ed un altro civile su colle S. Angelo con il Castello. Ambedue i punti all’interno dell’originario perimetro urbano romano.

Lo stesso pare essersi verificato in Isernia, con la differenza che le condizioni orografiche non permettevano una identica ripartizione.
E’ da supporre che il Vescovo, che rappresentava nei secoli V e VI, l’unico concreto e stabile riferimento politico e sociale oltre che religioso, abbia organizzato la prima cittadella attorno all’antico tempio latino attestando il piccolo nucleo urbano nella parte alta della città romana, attorno al Foro.
Forse soltanto alla fine del VI secolo cominciò a stabilizzarsi con i Longobardi la situazione amministrativa ed Isernia, di conseguenza, dovette ospitare quelle attrezzature urbane essenziali per garantire la difesa del potere dei nuovi conquistatori.
Attrezzature che avevano soprattutto un carattere militare. Infatti la lotta tra Longobardi e Bizantini interessò per molto tempo la penisola con guerre lunghissime ed estenuanti, intervallate solo da momenti di tregue più che da periodi di pace.
A queste vicende Isernia rimase forse interessata solo marginalmente per cui non vi dovette essere uno vero e proprio scontro fisico dei Longobardi con eventuali comunità bizantine né con il vescovo, quanto piuttosto dovette arrivarsi ad un accordo di cui avremmo conferma dalla fondazione nel VII secolo della chiesa longobarda di S. Angelo e di quella quasi certamente contemporanea di S. Maria delle Monache.
Non è semplice rifare gli avvenimenti di questo periodo e sapere con certezza se i Bizantini abbiano in qualche modo partecipato alla ricostruzione della città dopo la caduta dell’impero romano.
Un aspetto della tradizione popolare e religiosa credo sia stata fino ad ora sottovalutato, anche se spesso è stato trattato con finalità diverse, e cioè quello relativo al culto del Santi protettori.

Sebbene oggi le festività religiose più importanti siano quelle in cui si ricordano i Santi Cosma e Damiano e S. Pietro Celestino, in verità il santo protettore di Isernia è Nicandro, che insieme a Marciano, è anche il protettore di numerosi altri centri del meridione tra cui Venafro.
Sull’argomento fino ad oggi si è a lungo disquisito solo per accertare se  sia vera la tradizione popolare secondo cui questi Santi, martirizzati sotto l’impero di Diocleziano, siano morti realmente a Venafro o nella Mesia (tra Bulgaria e Jugoslavia).
Ora, mentre non vi è alcun documento storico che attesti la presenza fisica di tali santi in questi territori, in quanto tutte le supposizioni si fondano su documenti di epoca tarda, ben diverse e sicure sono quelle fonti che ci mostrano chiaramente che nell’Italia meridionale fu, molto più semplicemente, trasferito soltanto il culto per essi realmente esistiti nella Mesia e venerati soprattutto dai cristiani di rito greco e perciò dai Bizantini.
Indicativi sono gli stessi nomi dei due Santi, Nicandro e Marciano, (cui solo successivamente fu aggiunto quello di Daria) la cui derivazione è chiaramente greca.

I monaci bizantini che particolarmente diffusero la venerazione di questi Santi furono i cosiddetti Basiliani, che a Napoli avevano creato uno dei centri più importanti del rito greco. Nicola Cilento afferma che nel VI secolo a Napoli fra i più venerati monasteri greci vi fu quello dei Santi Nicandro e Marciano, che poi, stando alla leggenda a noi nota di S. Patrizia, fu lasciato dai monaci alle vergini che seguirono il corpo della fanciulla dell’isola Megaride.
Appare per questo molto improbabile che il culto per i due Santi sia posteriore all’avvento dei Longobardi nel VI secolo. Personalmente poi rivolgerei l’attenzione per confermare l’ipotesi di un insediamento bizantino, su un toponimo ancora esistente nell’area urbana della Cattedrale e sui recenti scavi eseguiti all’interno di essa.

Il toponimo riguarda il cosidetto Vico dei Greci che corrisponde ad uno degli assi ortogonali a corso Marcelli, quasi al limite dell’attuale presbiterio della Cattedrale. Per il passato si è tentato di giustificare tale nome ritenendo che in questa parte della città fossero situate le case della famiglia Greco. Tale affermazione non è stata mai concretamente dimostrata, lasciando comunque insoluto l’interrogativo sul perchè si sarebbe dato un plurale ad un cognome tenuto sempre al singolare.
Sembra, invece, molto più plausibile attribuire l’origine del toponimo alla reale presenza di greci, cioè di una comunità di rito greco quale era quella bizantina.
Direttamente collegata a sostenere questa tesi appare la scoperta all’interno della Cattedrale del primo impianto cristiano di una basilica con orientamento completamente opposto a quello attuale.

Dagli scavi in corso sull’intera superficie interna della chiesa è venuto fuori il perimetro dell’antico tempio almeno del III secolo a.C. e si è potuto definitivamente accertare, contrariamente a quanto prima si riteneva, che il fronte di esso non era situato in corrispondenza dell’attuale colonnato neoclassico, sulla piazza del Mercato, ma invece sul lato opposto e cioè verso il cosiddetto vico di Giobbe.
Sul basamento, ed in parziale corrispondenza della cella centrale del tempio dunque fu creata una basilica con la parte finale ad abside circolare di cui si è ritrovata la parte fondata sopravvissuta alle successive trasformazioni medioevali, barocche e neoclassiche.
Gli elementi salvatisi dalle stratificazioni permettono solo una lettura planimetrica parziale dell’edificio, ma vi si riconosce tuttavia un impianto longitudinale il cui fronte potrebbe coincidere con le tracce di una muratura, ortogonale all’asse principale, ove permangono avanzi di una pavimentazione in cotto.

Una conferma parziale che l’edificio fosse riservato al rito ortodosso ci proviene da un elemento di grande interesse venuto fuori dagli scavi e cioè una vasca circolare completamente ricavata nel piano originario dello stilobate del tempio.
Gli avanzi di gradini, nonché il foro con il canale scolo, fanno riconoscere in essa un battistero ove l’amministrazione del sacramento avveniva per immersione secondo la costumanza della chiesa orientale.
Ne viene fuori di conseguenza il disegno di una organizzazione urbanistica di modeste dimensioni in cui la chiesa basilicale, situata sul basamento del tempio della colonia latina, costituisce l’elemento emergente e dominante.
Tale basilica si collegava al vico di Giobbe (che, come ho dimostrato in altro luogo, è una modificazione dell’originario Jovis cui il tempio era dedicato) mediante una scalinata in pietra, successivamente distrutta quando il fronte della chiesa, forse nel XIV secolo, fu invertito e rivolto verso il Mercato e su di essa fu creata la nuova abside.
Vi è poi da aggiungere che fino al XIX secolo vico dei Greci e vico Giobbe si concludevano con una porta urbana sicuramente preesistente all’ultima cinta muraria del secondo medioevo di cui rimane il toponimo di Porta di Giobbe.
Altri particolari di grande interesse sono costituiti da frammenti lapidei con elementi decorativi e simbolici di chiara estrazione bizantina. Si tratta di pezzi in pietra provenienti dalla chiesa più antica e successivamente riutilizzati come materiale di riempimento.

Questo e solo questo, può farci ipotizzare la presenza di un rito greco in Isernia nei primi secoli del Medioevo e di conseguenza far supporre la presenza di una comunità bizantina. Del resto non sarebbe questo il primo caso di una contemporanea presenza in un medesimo centro urbano di cristiani di rito greco e di cristiani di rito latino.
Ciò avrebbe determinato lo svilupparsi di nuclei autonomi nell’ambito della più vasta area della antica città romana, unificati da una sola cinta urbana non prima del XIII secolo.
Ai Longobardi, e più precisamente, all’epoca della elevazione di Isernia a capoluogo di Contea, cioè intorno alla metà del X secolo, può farsi risalire la costituzione di una vera e propria cittadella fortificata che potrebbe essere individuata intorno alla chiesa di S. Maria delle Monache.
Alcuni elementi, sia di carattere topografico che toponomastico, ci verrebbero in aiuto, confermandoci l’ipotesi, cui abbiamo fatto cenno, di un nucleo urbano, con funzioni più propriamente civiche, distinto dall’altro, con carattere più religioso, facente capo alla Cattedrale.

Poco sappiamo delle caratteristiche dei nuclei fortificati longobardi, tuttavia di sicuro essi erano formati da un castello molto semplice, in forma di torre quadrangolare, da cui partiva una cinta muraria capace di accogliere la piccola comunità, compresa la chiesa.
L’area circostante il monastero di S. Maria delle Monache si presta bene a tale ipotesi.

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La parte basamentale del castello sul lato occidentale di Isernia

Del castello non ci è rimasto solo il toponimo vico Castello e vico storto Castello ma anche l’impianto quadrangolare di una robusta costruzione il cui accesso laterale viene chiamato porta Castello.
Tale edificio, notevolmente trasformato nel tempo, si affaccia per il suo lato interno sulla piazzetta S. Angelo, su cui si apriva pure una piccola chiesa anch’essa completamente trasformata dopo il 1805.
Della chiesa di S. Angelo la notizia più antica ci proviene dal Chronicon Vulturnense quando il monaco Giovanni elenca i beni ceduti da un certo Graffolus al monastero di S. Vincenzo. Tra questi è compresa appunto la chiesa di S. Angelo dentro la città di Isernia con 25 case:
Dedit eciam idem Graffolus in eodem venerabili monasterio quecumque illum possidere contigerat in civitate Ysernia, idest vigintiquinque Casas de servis, et ecclesiam Sancti Angeli cum pluribus subiectis cappellis, et molendinum in flumine Padulittu, limatas eciam iuxta civitatem atque casales, et alias possessiones sibi pertinentes. (Chronicon Vulturnense, ed Federici, Vol. I, p. 275).
Secondo il Federici il cronista erroneamente attribuisce questa donazione a un Graffolus figlio di Godeperto vissuto alla fine dell’VIII secolo, mentre più verosimilmente deve trattarsi di Graffolus figlio di Traiso, vissuto qualche decennio dopo.

Il nome del secondo Graffolus, figlio di Traiso, compare in un documento del 985, steso in Teano, con il quale Ianniperto figlio di Todelgari, nato ed abitante, insieme alla moglie Monda, figlia di Aderico, donano al monastero di S. Vincenzo al Volturno, i propri possedimenti consistenti in terreni e case poste fuori e dentro la città di Isernia.
Per quanto riguarda poi la tesi avanzata dal Viti secondo cui il termine porta Castello sarebbe una deformazione di un originario termine porta Catella in conseguenza di una lapide romana anticamente esistente sul posto e riportante questo nome femminile, essa mi sembra del tutto gratuita, anche se trova degli illustri sostenitori che però non avevano mai considerato la cosa dal punto di vista strettamente urbanistico.

Del resto appare molto poco probabile che una città come Isernia, sempre presente nella storia del suo territorio con funzioni di controllo amministrativo, non avesse un castello urbano collegato in maniera diretto alla cinta muraria.
E l’unico toponimo castello nella città è rimasto nel luogo che abbiamo detto, senza che tracce di un qualsiasi castello siano riscontrabili in altre parti del tessuto urbano.
Inoltre determinante per la conferma che il nucleo longobardo fosse qui localizzabile è la presenza della Chiesa di S. Maria delle Monache la cui fondazione è sicuramente anteriore all’VIII secolo.

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La difesa muraria all’altezza di S. Maria delle Monache

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La cittadella aveva una estensione non superiore a 10.000 metri quadrati ed era caratterizzata dal punto di vista urbanistico da due poli opposti, coincidenti nel Castello allo spigolo nord-occidentale e da S. Maria delle Monache in quello sud-orientale.
E’ evidente che non può assolutamente tentarsi una datazione della prima formazione di tale assetto, per la totale mancanza di documenti storico-epigrafici, tuttavia esso dovette esistere fino all’XI-XII secolo.
I Longobardi non avevano una autonoma tradizione urbanistica ed architettonica e tutti i loro interventi si diversificarono nelle varie parti d’Italia proprio in conseguenza delle preesistenze urbanistiche che incontravano.
Per il nucleo isernino fu determinante la preesistenza del tessuto romano che nonostante i secoli di abbandono, venne riutilizzato con molta fedeltà negli allineamenti generali.

La sola eccezione appare essere il cosiddetto vico storto Castello che costituisce l’unica irregolarità nella ripetizione puntuale dei vicoli ortogonali all’asse principale della città.

Il rilievo sistematico di tutta l’area ha permesso di escludere che tale irregolarità sia stata determinata da particolari edifici romani ivi preesistenti. Appare infatti chiaro che il vico storto costituisca un vero e proprio taglio nell’originario tessuto romano, per il collegamento tra la cosiddetta porta Castello e la chiesa di S. Maria delle Monache. In particolare certamente significative sono le irregolarità aggregative nel tratto compreso tra piazza S. Angelo e la citata porta Castello, ove è possibile il riconoscimento del tratto iniziale di questo asse trasversale.

Successivamente, per le mutate esigenze urbanistiche del XIX secolo, il tratto stradale si saturò di case, interrompendo così l’originario collegamento trasversale.

Sappiamo, infatti, che alla fine del secolo scorso tale tratto era ancora pubblico come appare dalla planimetria eseguita da Udalrigo Masoni nel 1887.
Non ha dato risultati soddisfacenti l’analisi delle murature per poter meglio definire l’andamento della cinta difensiva, per cui il predetto vicolo potrebbe anche corrispondere ad una originaria strada, parzialmente extra murale o comunque a ridosso della cinta longobarda, facendo ipotizzare una forma vagamente triangolare del nucleo, compreso tra l’attuale S. Francesco, il cosiddetto Castello, e S. Maria.

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La prima torre su via orientale nel 1980 e nella stampa del Pacichelli

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La torre oggi con le archibugiere

D’altra parte Isernia nell’alto Medioevo fu non poche volte devastata, e non solo a seguito di eventi bellici, ma anche per cause naturali
Da Paolo Diacono (Historia Longobardorum) apprendiamo che nel 667 Alzecone, duca dei Bulgari, dopo aver lasciato il suo paese per motivi che non conosciamo entrò pacificamente in Italia con tutto l’esercito del suo ducato e si presentò dal re Grimoaldo offrendogli i suoi servigi in cambio dell’ospitalità. Il re allora lo indirizzò a Benevento da suo figlio, al quale ordinò di assegnarli un territorio. Il duca Romualdo accolse tutti con piacere mettendo a loro disposizione vaste estensioni di terreno fino allora deserte, nei dintorni di Sepino, Boiano, e Isernia e di altre città, e indusse lo stesso Alzecone a cambiare il suo titolo in quello di Gastaldo. Ancora oggi gli abitanti di quelle zone, benché ormai parlino anche latino, non hanno perduto l’uso della loro lingua.

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La torre angioina nell’area della “petia de terra” di Leone

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 Preziosa fonte di informazioni è il Chronicon Vulturnense, del monaco Giovanni per i continui collegamenti tra la storia dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno ed Isernia e da esso abbiamo la descrizione delle due invasioni Saracene del IX secolo.
Isernia già nell’847 era stata completamente rasa al suolo da un terremoto e 14 anni dopo nell’861, veniva assalita per la prima volta dai Saraceni. Dal Chronicon ricaviamo che nell’881, alla vigilia della seconda e più feroce incursione saracena, l’abbazia di S. Vincenzo possedeva nel territorio di Isernia i beni che furono elencati dal monaco Sabatino.
Tra essi la citata chiesa di S. Angelo con le 25 case dei servi che abitavano lì attorno.

Oltre ai predetti servi, la comunità godeva dei servigi di un fabbro ferraio di nome Sabiano, famiglio del Monastero di S. Vincenzo, mentre l’amministrazione era tenuta dal presbitero Giordano, servo e vicedomino dello stesso monastero.
Appartenevano a S. Vincenzo anche altre cappelle soggette alla chiesa di S. Angelo ed alcune masserie situate vicino al fiume Petroso, oggi chiamato Carpino, dove questo si congiunge con l’altro fiume. Questi beni dei famigli di S. Vincenzo e le terre coltivabili erano lavorate all’uopo dai monaci di S. Angelo.
Così pure presso lo stesso fiume nelle vicinanze della città, chiamato allora Padulittu ed oggi Sordo, possedevano un molino che, con il suo bacino, si estendeva tra i due fiumi fino a Noceto. Il Molino era diviso in tre quote uguali una delle quali era dell’episcopio di S. Pietro, la seconda del monastero del S. Vincenzo e la terza era pubblica. Nelle vicinanze vi erano pure chiese con le rendite spettanti sempre al monastero di S. Vincenzo.
Nello stesso anno 881 i Saraceni, che secondo il Chronicon erano comandati da Saugdan, del Califfato di Bari, assalirono il monastero di S. Vincenzo e l’anno dopo distrussero Isernia.

La serie dei Conti longobardi che hanno dominato la città fino alla metà dell’XI secolo è stata ricostruita da Angelo Viti nei saggi Scavi e pergamene. ecc. (Almanacco del Molise 1981), Problemi storico-documentari sulla fondazione di S. Maria di Isernia (Almanacco del Molise 1980) e Note di diplomatica ecclesiastica sulla contea di Molise, ecc. del 1922.
Vi riprendo un documento databile tra la fine del X secolo ed i primissimi del secolo XI e che riguarda la donazione di una vigna da parte dei fratelli Laidulfo e Landenulfo, principi longobardi, a favore del vescovo isernino Lando.
L’atto è interessante per la descrizione dei confini del terreno che, come risulta da alcuni antichi documenti dell’Archivio Capitolare, è situato nei pressi della citata porta Castello.

Si tratta di una petia di terra coltivata a vigna, posta a non molta distanza dall’Episcopio della Cattedrale di S. Pietro con il primo lato confinante per centotre passi con un muro antico che era stato della città antica.
Il secondo lato confinante per ventisei passi con la terra ed il vigneto di un certo Leone. Il terzo lato di centosette passi con la proprietà di un altro isernino, chiamato Carbonaro. Il quarto lato, di trentaquattro passi, confinante con un altro muro e con la terra di Rufo:
… per hanc cartam didimus atque offeruimus in ecclesia vocabulo Sancti Petri Apostolorum principi eserniense sedis / hoc est: una pe / tia de terra nostra cum vinea posita, que esse videtur non multum longe a iamdicto episcopio Sancti Petri / que habet fines: prima parte muro antiquo qui fuit de ipsa civitate vetere, sunt inde passus centum et / tres: de secunda parte finis terra et vinea de filio Leoni bone (memorie), sunt inde passus viginti sex: de tertia parte finis / ipso Carbonaro ambique pertinentem predicte nostre civitati Esernie, sunt inde passus centum et semptem: / de quarta parte finis alio muro et terra Ruti, sunt inde passus triginta quattuor ad passu Landoni gastaldi /est mensurata. Has autem iamdicta petia de terra et vinea qualiter superius de fine indica / ta et mensurata est, una cum arboribus et cum omnia intro se habentibus subte(re)t cum vico ibi / que intrandi et exiendim cuncta et integra iamdicta petia de terra et vinea pro animabus nostris seu et pro ani / marum supradictorum nostrorum parentum, in predicta ecclesia Sanctis Petri dedimus et tradidimus atque offeruimus / ad possessionem domini Landoni venerabili presuli et de omnibus custodibus et rectoribus eiusdem ecclesie. ad / habendum et possidendum et dominandum et laborandum et fruendum et faciendum de vino et vic / tualium omnia que eorum placuerit.

Dalla descrizione pare che sia di tipo diverso il muro del primo confine da quello del quarto. Infatti, il primo viene definito muro antiquo qui fuit de ipsa civitate vetere, l’altro viene definito semplicemente alio muro, senza l’appellativo antiquo.
Inoltre, se il primo confine è allineato per 103 passi con il muro della città, il quarto, essendo il terreno pressoché rettangolare, doveva essere ortogonale alla cinta muraria.
Il terreno potrebbe corrispondere a quello attualmente di proprietà Laurellí, sito proprio nelle vicinanze di porta Castello e non più tenuto a vigna. In esso si trovano vistosi avanzi della muratura ciclopica romana, proprio secondo il lato lungo, che comunque non coincidono con la cinta medioevale che in questa zona risulta notevolmente arretrata.
Di conseguenza il muro del quarto confine non sarebbe altro che quello facente parte della cinta longobarda e relativo al tratto posto nei pressi del Castello dove fuoriusciva rispetto all’originario muro romano.

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Tratto di muro longobardo con riutilizzo di blocchi romani

Non passa mezzo secolo dall’anno mille che i Longobardi, inde¬boliti da numerose lotte interne, cedono il dominio dell’Italia Meridionale ai Normanni.
La contea longobarda di Isernia scompare, come scompaiono tutte le piccole realtà comitali, ed il tentativo di riunificazione del Meridione della Penisola viene così avviato, anche se solo con Federico II, nel XIII secolo, troverà concreta attuazione.
Isernia nel periodo di dominazione normanna entra a far parte della nuova e più vasta Contea di Molise e pochissime sono le notizie delle sue vicende urbanistiche. Sappiamo dal Ciarlanti che nel 1070 un certo Giovanni d’Isernia persona di gran nobilità offrì a Cassinesi il Monastero di S. Benedetto sito nel luogo detto Bagnarola, con le chiese di S. Maria e di S. Lucia, e con tutte le loro pertinenze. Bagnarola sarebbe l’attuale S. Maria del Bagno in tenimento di Pesche.

Ben diversa è la notizia, sempre del Ciarlanti, secondo cui dalla Puglia per Capitanata l’anno 1199 tornò l’empio Marcovaldo con i suoi ladroni al contado di Molise, e vedendo che co’l suo esercito ritener non potea la città d’Isernia, la fe’ crudelmente saccheggiare, e spogliare di quanto vi era da quei malvagi, che vi fecero ogni possibile danno.
Nel secolo XII Isernia dunque doveva essere una città ridotta in condizioni piuttosto misere tanto che anche la diocesi viene ad unificarsi con quelle di Boiano e di Venafro sotto un solo vescovo.

Nel secolo seguente, invece, sebbene abbia continuato a patire assalti e distruzioni, sembra aprirsi ad una vera e propria rinascita con un notevole sviluppo urbanistico.
Abbiamo visto che fino all’XI secolo la parte di città murata non doveva essere molto ampia, ma tuttavia immediatamente fuori del nucleo longobardo dovevano esistere piccoli nuclei sparsi che si erano sviluppati nell’ambito dell’antico tessuto urbano della città romana. La stessa Cattedrale risultava essere esterna al nucleo principale.
Appare poco probabile che in epoca Normanna, quando Isernia non è più neppure capoluogo di Contea, essa si sia munita di una cinta muraria così imponente come quella che ancora si riconosce. Per di più da tutte le cronache relative a quest’epoca, e che riferiscono le varie vicende belliche che hanno interessato tutta l’area sannitica, vediamo citati quasi tutti i castelli dei centri medioevali vicini ad Isernia, ma non viene mai nominato un castello di Isernia.
Inoltre il primo ventennio del XIII secolo rappresenta un periodo di totale autarchia per l’area molisana per cui molto improbabile è l’ipotesi della costruzione di nuove cinte murarie e fortificazioni urbane.

La Contea di Molise vede un alternarsi di vicende belliche che culminano con la lotta tra Tommaso da Celano, conte di Molise, contro il fratello Riccardo che aveva giurato fedeltà a Federico II nel novembre 1220, a Roma, in occasione della sua incoronazione.
Quest’ultimo nel dicembre dello stesso anno, da Capua, stabilì la distruzione dei castelli e delle cinte fortificate di tutte le città che non potevano essere direttamente controllate dalle truppe imperiali e nominò giustiziere, per l’attuazione delle sue disposizioni, Teodino di Pescolanciano che ricevette l’aiuto dei due giudici isernini Carado e Rampino.
Riccardo di S. Germano riferisce che nel 1223, riconquistata la Contea di Molise Federico II fece abbattere le mura di Isernia e la città per metà fu data alle fiamme (… Serniae moenia diruuntur, cuius civitatis fere medietas igne cornburitur …).

Non sappiamo però di quali mura si tratti.

Il Ciarlanti ritiene che siano le mura antiche, cioè quelle romane; altri, più recentemente, le identificano con quelle che ancora costituiscono il perimetro dell’attuale centro antico.
Con molta probabilità non sono né le une, né le altre, ma piuttosto deve trattarsi delle mura longobarde che racchiudevano l’antico castello e S. Maria delle Monache, proprio perché il nucleo urbano murato, nel 1223, non era molto esteso.
Ma se violenta può apparire immediatamente l’iniziativa di Federico II nei confronti di Isernia, altrettanto non può dirsi delle iniziative successive dell’imperatore a favore della città che durante il suo dominio si presenta come la più grande della Contea di Molise.

Impensabile perciò che proprio in periodo federiciano si costituisse una muratura a difesa del nucleo urbano che inoltre avrebbe ancora presentato notevoli spazi liberi all’interno.

Dobbiamo desumere quindi che al tempo di Federico la città sia stata sotto la protezione imperiale ma a causa della sua importanza strategica le sia stato impedito di munirsi di strutture murarie per la difesa urbana.

Un documento molto importante è invece costituito dalla dichiarazione fatta dal conte Ruggero da Celano a favore della città nel 1254, il cui testo in latino è conservato nell’Archivio Capitolare ed è stato interamente pubblicato da A. Viti in Cod. diplom. ecc..
Per comodità riporto nella traduzione italiana l’ultima parte delle disposizioni che riguardano più direttamente l’edilizia e la gestione della città:
Nessuno della suddetta città sia costretto a fornire alcuna opera di trasporto sia con la propria persona che con i propri animali, a meno che uno sia tenuto, per caso, a qualche servizio eccezionale. E sia consentito ad ogni cittadino possedere giusti pesi e misure e servirsene secondo il proprio volere.
Se qualche forestiero poi, da qualunque luogo arrivi, venga nella città di Isernia per abitarvi o per qualche altro motivo, una volta entrato nel territorio della Città, non sia in nessun modo vessato, né sia imprigionato, per qualche sua malefatta, senza giudizio, né sia costretto contro la sua volontà a tornare al paese d’origine, e a qualsiasi cittadino sia permesso prendere sotto la propria protezione un forestiero, ad eccezione di un nemico della città, sia in pace che in guerra, in maniera che egli non abbia a soffrire ingiurie da alcuno, né nella persona né nelle sue cose, ma possa muoversi liberamente.
E se qualcuno vedrà un suo cittadino essere percosso da un forestiero, o spogliato ingiustamente delle sue forze, devolva alla nostra Curia un’oncia d’oro.
Non abbiano luogo riunioni, ordinamenti o costituzioni nella stessa città, né sia divulgato il Baiulo, per più di mezza oncia d’ora, se non con il consenso e deliberazione di trenta galantuomini della Città.

Ai cittadini che abitano nei pressi della mura della Città, sia consentito di innalzare i loro muri secondo la propria volontà, di porvi su staccionate di legno e aprirvi balconate e finestre e sia permesso ad ogni cittadino applicare davanti alla casa, grondaie secondo la natura e l’ampiezza del luogo, in maniera da non disturbare i vicini. (…)
I cittadini poi di detta Città non siano costretti ad arruolarsi nello esercito, se non per una sola giornata per la Contea del Molise e se per caso si verifichi una necessità, per non più di tre giorni staranno in armi solo in nostra compagnia né permetteremo che un cittadino di detta Città ospiti nella sua casa qualcuno contro la sua volontà. Ai funzionari è consentito commerciare nei loro tenimenti e se hanno alle proprie dipendenze uomini inidonei per infermità, li tengano al proprio servizio esentandoli dall’obbligo militare.
Inoltre giuriamo che non costruiremo mai nella città di Isernia né un castello né fortilizi, né permetteremo che altri li facciano e obbligheremo con giuramento tutti i cittadini perché non permettano che ciò avvenga.
Anche coloro che in pubblico si comportano male siano perseguiti dal magistrato con l’intervento chiassoso dei concittadini. I Canonici, i funzionari, i giudici ed i notai ed i loro famigliari, non debbono per legge essere obbligati a prestazioni relative ai boschi e alla difesa dei fiumi. Se il Baiulo verrà in contesa con qualche cittadino di Isernia, giammai sia richiesto a lui il giuramento, ma all’avversario.
Se qualcuno avrà ucciso dolosamente un porco, a suo arbitrio lo stesso sia restituito al padrone, oppure trattenga per se la metà e la restante metà sia data alla nostra Curia.

Concediamo noi che tutti i cittadini di Isernia siano esentati dai pedaggi e dai plateatici per tutte le terre del nostro demanio, sia nelle terre della nostra Contea del Molise che nelle nostre altre terre altrove; vogliamo poi che siano libere ed esenti da ogni diritto di contributo plateatico le feste e i mercati in concomitanza con la festività annuale in detta città dei due Santi Nicandro e Marciano, affinché tutti possano parteciparvi per cinque giorni, due giorni prima della festa e due giorni dopo.
Similmente coloro che verranno in detta città nella festa degli Apostoli Pietro e Paolo per tre giorni, cioè uno prima della festa, uno la festa stessa e un altro dopo la festa, siano esenti da ogni tributo.
Sia tenuto il mercato una volta alla settimana, il giovedì, in detta città, senza pagamento di plateatico. Poi ogni volta che un cittadino di detta città viene nella nostra Curia per ottenere dei documenti sia per motivo personale, sia per affari dei cittadini di Isernia non dovrà pagare nulla né per la scrittura né per il sigillo, né gli uomini di Isernia siano obbligati né costretti in alcun modo a fare, fuori della Città, fortificazioni o riparazioni di alcuna zona.

Ai Baroni non sia richiesto nessun tributo plateatico. Del resto se¬condo un’antica consuetudine della predetta Città, né al Baiulo né ad alcun nostro magistrato sia lecito, o per debiti od altra coercizione, pignorare a nessuno di detta Città il letto, o il porco pronto per essere ammazzato, il bue, il cavallo domato o la camicia di dosso; né alcun cittadino di Isernia sia tratto in giudizio calunniosamente.
Se qualche attaccabrighe o dissipatore o maldicente, disonoreranno con la loro maldicenza o una donna o un uomo onesto della città, se si lamenteranno di essere stati da costoro bastonati o puniti in qualsiasi maniera, non trovino ascolto dalla Curia.

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Schemi ideogrammatici della città in epoca romana ed in quella angioina

Pare evidente dal testo che in tale anno, 1254, le mura non avessero alcuna utilità difensiva tanto che Ruggero concesse ai cittadini abitanti presso le mura della città di innalzare murature secondo le proprie esigenze.
Ma ancora più importante è il giuramento di non costruire e di non permettere la costruzione né di un castellum, né di alcun fortellitium, per cui possiamo desumere che la cinta urbana, o più propriamente il perimetro urbano, in quell’epoca non era dotato né di castello, né di torri di difesa.

Una ulteriore conferma che le torri della città non possono essere di età sveva, né precedenti, ci viene dall’esame della loro forma architettonica. La presenza delle basi inclinate a scarpa fa infatti escludere che esse possano essere anteriori al periodo angioino della fine del duecento.
Tuttavia neppure i registri della Cancelleria Angioina recano alcuna notizia riguardante le fortificazioni isernine e tantomeno un minimo accenno alla cinta urbana.
Sappiamo solo che la città, che da Carlo I era stata esentata dal pagamento delle tasse per la estrema miseria dei suoi abitanti, nel 1275 dovette contribuire alle spese per la riparazione dei Castello di Boiano.
Dall’atto di fondazione della confraternita di Pietro Angelerio sappiamo, però, che la sua casa era situata prope portam maiorem superioris partis civitatis.
L’indicazione di una porta maggiore ci induce a ritenere che non si tratti di un appellativo preesistente, come può accadere nella nostra epoca, ma di un termine riferito ad una vera e propria porta del nucleo urbano e di conseguenza ad una apertura nella cinta muraria.

Ne dovrebbe discendere che tra il 1254, anno della promessa di Ruggero da Celano di non fortificare la città, ed il 1289, anno di fondazione della Confraternita, Isernia potrebbe essere stata dotata della cinta muraria che ancora si riconosce.
Ed è proprio in questo lasso di tempo, 1254-1289, che alcuni importanti interventi modificano sostanzialmente la struttura della città soprattutto per quel che riguarda la concezione generale nella determinazione degli spazi collettivi.

Il primo riguarda la fondazione della chiesa di S. Francesco con l’annesso convento, che, secondo quanto è riferito dalla lapide sistemata a lato del portale tuttora esistente, fu edificata nel 1267 sulla preesistente chiesa di S. Stefano e nell’ambito dell’attuale cinta muraria.

Il secondo si riferisce alla fondazione del convento celestiniano di S. Spirito nato intorno al 1272 e sicuramente esistente nel 1276, come si può ricavare da una lettera del vescovo di Isernia Matteo a Pietro Angelerio, con la quale si concedevano alcune esenzioni ai monaci dell’oratorio de novo constructum… in loco ubi dicitur Pons de Arcu.

Il terzo alla fondazione del monastero di S. Chiara avvenuta nel 1275. A questo dobbiamo aggiungere poi la preesistenza del monastero benedettino di S. Maria delle Monache, che qualche decennio prima era stato sostanzialmente ristrutturato e che era pienamente attivo alla fine del duecento, e del convento extraurbano, anch’esso benedettino, di S. Vito della Valle, sulla piana di Macchia e sulla strada proveniente da Roma e da Napoli.

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Non si tratta di interventi episodici e casuali. Tutte le città in questo periodo sono profondamente condizionate dalle innovazioni religiose introdotte dai francescani e domenicani nel centro-nord della penisola e dagli spirituali nel centro-sud.
Questi ultimi, ben visti dalla corte angioina, avevano assimilato la predicazione francescana a quella gioachimitica ed avevano trovato in Pietro Angelerio il maggiore interprete e protettore.

Pietro Angelerio nato forse ad Isernia o comunque nel Molise nel 1215, di origini contadine, lasciò la città natale per farsi monaco benedettino. Nel 1240, dopo essersi ritirato a vita eremitica sul monte Marrone, costituì una congregazione di religiosi che in breve raggiunse le 600 unità che, dopo la sua breve ascesa al Papato nel 1294, presero il nome di Celestini.
Il grande e, sotto certi aspetti, equivoco protettore di Pietro Angelerio fu proprio Carlo II d’Angiò che fu anche l’abile artefice del suo Papato e che determinò lo spostamento della sede pontificia da Roma a Napoli.
Dell’atteggiamento favorevole degli angioini per i movimenti mendicanti risentì l’assetto della città che dovette modificare la sua struttura per adattarsi alla predicazione popolare che costituiva il momento esaltante dell’attività religiosa dei monaci francescani e spirituali.
Vale intanto la pena notare che quasi dappertutto i nuovi conventi francescani nascevano fuori dalle preesistenti cinte urbane determinando i nuovi poli della città e condizionando lo sviluppo urbanistico  fino ai nostri giorni. Per questo sembrerebbe perlomeno fuori del comune che per Isernia invece sia avvenuto diversamente.

Una spiegazione plausibile sarebbe quella che nel 1267 la cinta muraria o non esisteva o non aveva quella funzione di vero e proprio perimetro a chiusura e difesa della città.
Pure da notare è il fatto che nella città non compaiano i Domenicani, i quali contesero, se possiamo usare il termine, ai Francescani la prerogativa della predicazione, producendo spesso anche violenti scontri tra i due ordini.
Non è da escludere che siano state le misere condizioni economiche della città a sconsigliare un intervento dei domenicani, i quali, per precise scelte strategiche, preferirono insediarsi solo in quelle città di sicuro potenziale economico e commerciale.
Possiamo dunque ritenere che tra il 1267, costruzione del convento di S. Francesco ed il 1275, erezione del monastero di S. Chiara, si stabilisca definitivamente l’assetto della città con la creazione di un filo conduttore ed unificante di quei poli che, creatisi in maniera quasi autonoma e spontanea sul tessuto dell’antico impianto romano, non ancora erano riusciti a conquistare un ruolo organico nella vita della città.
Sicuramente per questo la costruzione dei due conventi servi a bilanciare a favore della iniziativa francescana l’asse longitudinale del nucleo urbano facendo presumere che i due complessi, sebbene separati di 7 anni nel tempo, siano stati programmati contemporaneamente.
Cerchiamo ora di comprendere quale importanza ebbero i Francescani, i Celestini ed in generale le confraternite nella gestione della città.
I primi, cioè gli ordini mendicanti, combattuti da Federico II trovarono al contrario, non solo nella corte angioina, ma soprattutto nella nascente e fiorente classe dei mercanti, i reali protettori che determinarono concretamente il loro sviluppo e la loro potenza economica.

Francescani, Domenicani e tutti quegli ordini che in qualche modo ad essi si riferivano, compresi i Celestini, non ebbero inizialmente grosse proprietà terriere, tuttavia elevarono chiese e conventi che solo una forza economica notevole poteva permettere.
La loro forza, che li portò ad essere parte essenziale nella gestione delle città italiane, evidentemente derivò non solo dal fascino che poteva emanare la loro predicazione, ma anche da una consistente liquidità di denaro che proveniva dalle donazioni della classe mercantile più che dai proprietari terrieri.
La spinta iniziale di assoluta rottura impostata da Francesco un po’ alla volta si inquadrò nel sistema economico emergente e finì per diventare uno dei pilastri per la organizzazione del consenso alle attività delle classi dominanti.
Del resto non si comprende con quali mezzi di persuasione gli ordini mendicanti sarebbero potuti penetrare cosi pesantemente nell’assetto della città se una parte del potere economico non li avesse decisamente appoggiati. E non pare che tale potere fosse quello dei vescovi che in quest’epoca a malapena riescono a far sopravvivere le cattedre vescovili.

Anche il Capitolo isernino dovette rassegnarsi ad accettare questa nuova preponderante espansione del potere dei monaci francescani tanto che il 20 febbraio 1267 vediamo divenire vescovo della città frate Errico da S. Germano dell’Ordine dei Minori. Ed è proprio durante il suo vescovato che vediamo completato nel 1267 il convento di S. Francesco, fondato nel 1272 il convento celestino di S. Spirito e costruito nel 1275 il monastero di S. Chiara.
Ancora maggiore, anche se limitato rispetto a quanto avviene in Umbria e Toscana, appare l’importanza degli interventi francescani in Isernia se consideriamo che sia il convento di S. Francesco che il monastero di S. Chiara prevalgono sull’abitato non solo per la dimensione delle loro fabbriche, ma anche per la posizione che in qualche modo può considerarsi privilegiata dal punto di vista dell’esposizione e perciò dell’igiene.

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Una delle torri sul lato orientale completamente trasformata

Ma il carattere urbano di una vera e propria ideologia francescana si evidenzia nella definizione spaziale di corso Marcelli che alla fine del Duecento modifica definitivamente la sua assialità di decumano romano per segmentarsi e divenire serie di elementi per il collegamento delle tante piazze che con l’arretramento delle facciate vengono ad aprirsi sull’originario percorso.
Appare indubbio che per Isernia, come per altri centri, tale processo non si esaurisce nei pochi decenni della fine del duecento; infatti, una volta scoperto e sperimentato positivamente il significato delle piazze nel sistema urbano, questo diviene il motivo conduttore dello sviluppo organico dei secoli XIV, XV e XVI.

Interessante è la testimonianza del Ciarlanti che nel XVII secolo descrive la piazza antistante la chiesa di S. Francesco come la maggiore piazza della città, facendo supporre che la sua superficie comprendesse pure l’area su cui ora insiste il palazzo De Lellis-Petrecca.
Una volta definiti i poli di riferimento della città, la cinta muraria si sviluppò in maniera da proteggere organicamente non solo l’abitato, ma anche quelle zone che, rimaste non edificate, avrebbero costituito le aree di espansione interna.
Particolarmente utile per la ricostruzione della fortificazione isernina è la stampa seicentesca di G.B. Pacichelli che, sebbene realizzata quando ormai le mura avevano perso la loro funzione difensiva, fornisce una immagine della città che non doveva essere di molto dissimile da quella della fine del duecento.
Isernia nella prospettiva a volo d’uccello viene guardata da sud-est e mostra tutta la linea muraria sud-orientale. Il disegno eseguito intorno al 1695 e pubblicato ai primi del XVIII secolo, pur nella estrema semplicità, contiene quasi tutti gli elementi emergenti dal nucleo urbano.

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La torre del Mercato nel 1980

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La torre del Mercato oggi dopo uno sciagurato intervento di restauro

Le mura appaiono rovinate in più punti, però le parti conservate ancora presentavano le merlature a difesa del piano di ronda e le torri circolari, con la corona anch’essa merlata, non avevano subito la riduzione dell’altezza, forse avvenuta nel XIX secolo.
Su questo lato orientale la porta, detta del Campanile, era situata ove successivamente verranno realizzati i palazzi Cimorelli e Pecori, e cioè sulla strada ortogonale a Corso Marcelli che partendo dall’arco della Cattedrale si sovrapponeva ad un antico cardo della città roma¬na e prendeva il nome di vico del Campanile.

Delle due torri che la difendevano, e che appaiono sulla stampa, è rimasta solo quella di destra, mentre la seconda è stata completamente distrutta.
Delle altre porte una la troviamo situata a lato del Monastero di S. Maria delle Monache ed è del tutto scomparsa essendo stata sostituita dall’attuale rampa di accesso. Essa prendeva il nome di porta S. Giovanni a ricordo di una scomparsa chiesa di S. Johanne.
La seconda, che era detta porta della Fonticella, è situata accanto alla porta verso la Cattedrale ed è l’unica, sul lato orientale, che si presenti discretamente conservata negli elementi originari. La conformazione della sua parte superiore, con le arcate in pietra a tutto sesto ed accoppiate, ci permette di riconoscere che il sistema di apertura era costituito da una saracinesca che si apriva e chiudeva mediante scorrimento verticale.

Poca chiara è invece la stampa del Pacichelli nella descrizione della porta da piedi, verso Venafro, che sembra presentare un ponte al di sopra di un fossato che andrebbe a confondersi con il fiume Carpino il quale in realtà passa ad una distanza sensibile dalla cinta muraria.
Completamente mancante è invece la porta da capo, la cosiddetta porta maggiore dell’atto di fondazione della Fraterna, segno evidente che nel XVII secolo essa era già stata del tutto eliminata.
Poco si vede della linea muraria occidentale dove si nota solo un’apertura che dovrebbe essere porta Castello.
L’intera cinta urbana oggi è completamente inglobata nelle case che soprattutto dal XVII secolo in poi vi si sono sovrapposte, tuttavia è possibile ricostruire quasi interamente la sua forma deducendola non solo dai tratti di muro ancora visibile, ma anche dagli allineamenti con le torri che ancora sopravvivono, sia pure sostanzialmente trasformate.

Si nota che la linea difensiva medioevale non sempre coincide con quella ciclopica preesistente, tanto che in alcuni punti fuoriesce rispetto all’allineamento originario ed in altri si mantiene sensibilmente all’interno.

Appare evidente che mentre la cinta romana tende a rispettare un modulo predeterminato di equidistanza dall’asse longitudinale del decumano maggiore, quella medievale presenta un andamento più irregolare a conferma che la sua funzione di protezione era successiva a nuclei urbani che in qualche modo già si erano formati.
Sul lato orientale una prima torre circolare è posta a livello della strada attuale e notevolmente fuori di quella linea muraria romana che va dallo spigolo ciclopico del fronte meridionale fino al muro di recente scoperto nel cortile di S. Maria delle Monache. Sulla sua base tronco-conica, in epoca recente, e comunque dopo l’abbattimento del coronamento merlato, è stato sovrapposto un ambiente quadrato, mentre a testimoniare la sua attività difensiva è rimasta solo un’archibugiera in pietra.

Il muro della città tenendosi sempre esternamente all’antica linea, prosegue fino a S. Maria delle Monache dove un ulteriore avanzamento del fronte permetteva il controllo laterale mediante una arciera-archibugiera ancora esistente.

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Mura preromane sostengono S. Maria delle Monache

Da S. Maria in poi il muro sembra seguire quasi integralmente quello romano fino a raggiungere una seconda torre, nei pressi del largo Purgatorio, anch’essa di forma circolare e con muratura inclinata a scarpa nella parte inferiore.
Questa torre non presenta elementi di particolare rilievo ma è utile per comprendere come fosse collegata al tessuto urbano. Essa infatti si pone come conclusione di un percorso che la mette in diretta comunicazione con l’asse di corso Marcelli e sul quale, sebbene molto rovinato, ancora insiste un portico medievale con volta a sesto acuto.

Una terza torre, completamente rimaneggiata, si ritrova a metà tra S. Francesco e palazzo Cimorelli, su un tratto di muro del tutto inglobato nelle superfetazioni più o meno recenti ma che comunque conserva l’allineamento originario.
Nei pressi di Palazzo Cimorelli, come abbiamo visto, delle due torri che difendevano la porta è rimasta solo quella di destra, sebbene priva della merlatura e, abbastanza recentemente, anche intonacata.
Nessuna traccia evidente rimane della torre d’angolo, che dal Pacichelli viene riportata al limite del nucleo abitato, forse inglobata nelle strutture di casa Centuori.

Sul lato occidentale una prima torre si ritrova a livello della strada, in simmetria con la prima torre del lato orientale.
Più avanti, in luogo della prevedibile seconda torre circolare, si incontra il nucleo quadrangolare che abbiamo individuato come Castello, posto in simmetria, rispetto all’asse centrale di Corso Marcelli, con la torre del Purgatorio.
La terza torre, simmetrica rispetto a quella posta tra S. Francesco e Palazzo Cimorelli, è inglobata in uno spigolo di Palazzo D’Avalos-Laurelli, mentre la quarta è posta al disotto del giardino che una volta faceva parte della scomparsa chiesa dell’Annunziata (poi Palazzo Pansini).
Questo tratto compreso tra il Castello e l’Annunziata e arretrato rispetto all’allineamento romano, come appare evidente dal riconoscimento dei resti di muratura ciclopica, quasi-quadrata, presenti nei giardini sottostanti.La cinta muraria da questo punto, dopo essersi allargata fino a raggiungere la preesistente linea, e forse dopo averla anche superata leggermente all’altezza di vico dei Greci, si univa alla torre del Mercato. Dalla planimetria ottocentesca del Masoni ricaviamo che in tale tratto si apriva la cosiddetta Porta di Giobbe, di cui oggi non rimane traccia.

Della torre del Mercato, pesantemente manomessa con uno scellerato intervento di restauro, si conservano le sue linee essenziali nonostante la mancanza della merlatura. Assolveva la duplice funzione di elemento di raccordo del sistema difensivo e di Porta della Città; infatti su di essa vi si apre un arco a tutto sesto che una volta accoglieva la saracinesca a protezione dell’accesso occidentale della Piazza della Cattedrale.
Nessuna traccia evidente di muratura medioevale si incontra nei tratti successivi anche se l’impianto delle case oggi esistenti fa presumere che il muro proseguisse seguendo la linea di quello romano fino a chiudere la parte superiore della città.

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La prima delle torri sulla via Occidentale.

In conclusione possiamo ritenere che la cinta muraria medioevale presentasse due Porte principali, poste una a valle, verso Venafro, e l’altra a monte, presso la Concezione. Ambedue sistemate sull’asse longitudinale di Corso Marcelli.
Vi erano poi almeno altre tre Porte sul lato orientale e cioè quella di S. Giovanni presso S. Maria delle Monache, l’altra del Campanile all’altezza della Cattedrale e la terza, detta della Fonticella, di poco al disotto di S. Chiara.
Sul lato occidentale si aprivano almeno quattro porte e cioè la Porta Castello, la Porta di Giobbe, la Porta Mercato e la Porta di S. Bartolomeo.
Di torri circolari, tutte con muratura e scarpa nella parte inferiore e merlatura nella parte superiore, ve ne erano non meno di sette sul fronte orientale e quattro su quello occidentale, cui andrebbero aggiunte quelle, sicuramente scomparse, della zona del cosiddetto Mercatello.

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  • Silvio Vitone ha detto:

    Egregio e caro dott. Valente

    mi è sempre grato, piacevole istruttivo leggere i tuoi
    scritti. Spero proprio che ci possiamo vedere il 13 maggio ad Isernia,
    per il convegno del DASP.
    Con l’occasione mi piacerebbe avere indicazioni su ALCZECO
    ( sto scrivendo qualcosa in merito )

    A presto
    Silvio Vitone

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