S. Maria delle Monache, monastero longobardo in Isernia
Franco Valente
Lo scritto che segue è integralmente tratto dal mio volume Franco Valente, Isernia – Origine e crescita di una città, Campobasso 1982.
Pertanto le date riportate fanno riferimento all’anno dell’edizione. E’ aggiunta solo la frase finale che si riferisce alle ignobili ferraglie realizzate ultimamente.
S. Maria delle Monache
Dopo che i recenti “restauri” condotti dalla Soprintendenza ai Monumenti hanno praticamente e definitivamente distrutto tutto ciò che poteva essere utile a meglio comprendere la storia di questo insigne monumento, diventa molto difficoltoso ricucire i brandelli di notizie che ci sono pervenuti.
Difficoltà ancora più accresciute dal fatto che documenti mai esistiti per la medesima Soprintendenza sono stati assunti come riferimenti certissimi, dando di nuovo fuoco ad una polemica più che decennale sulla origine del Monastero.
Sulla base di una contraddittoria descrizione del Ciarlanti nelle Memorie Historiche del Sannio (XVII sec.) molti cultori fissarono al 456 l’anno di fondazione del complesso senza rendersi conto che lo storico isernino voleva solo affermare che il Monastero era sicuramente posteriore a tale data.
Un secondo erroneo punto di riferimento era diventato una bolla su “corteccia d’albero“, come dice il Galanti, (cioè su papiro) attribuita al papa Giovanni IV ed all’anno 639 o 640.
Questo documento nel passato era stato motivo di discussioni e già il Kehr (Regesta Pontificum Romanorum) metteva in dubbio l’autenticità del testo riportato dall’Ughelli nel XVII secolo.
D’altra parte tutti coloro che si sono interessati della questione non sono mai riusciti a ritrovare nell’Archivio Segreto Vaticano quel fantomatico documento che in effetti non è mai esistito. Basti pensare che in esso si parla di un “Landinolfo Comiti Aeserniensi” quando invece il primo conte di Isernia non può essere anteriore al X secolo.
Di ben diversa consistenza storica è il riferimento del Chronicon Vulturnense che riporta l’episodio di Godescalco avvenuto intorno al 738 quando ordinò che la propria moglie Anna fosse rinchiusa proprio nel Monastero di S. Maria di Isernia. Riferisce infatti il Chronicon che Godescalco, il quale una volta fu duca di Benevento (738-742) fece delle offerte con atto pubblico a favore del Monastero di S. Maria Genitrice di Dio, che è posto nella città di Isernia, e decretò che in esso sua moglie Anna passasse la sua vita secondo la regola monastica (Chr. Volt., Ed. Federici, Vol. I, pag. 321).
Dunque la data più antica riguardante il Convento di S. Maria è il 738, ma l’episodio così come narrato ci permette di essere certi che in quell’epoca il complesso già esistesse anche se difficile può essere il riconoscimento degli elementi architettonici più antichi.
Due epigrafi sono invece fondamentali per confermare che sostanziali trasformazioni ed ampliamenti furono effettuati nel X secolo.
Della prima, fortunosamente ritrovata ancora murata ai piedi del campanile nell’atrio del convento, si era avuta già notizia nel XVII secolo quando Troiano Spinelli vedeva l’iscrizione “in lapide turris campanariae Eccles. S. Mariae Monalium Iserniae“. (Vedi A. Viti “Problemi storici documentari ecc.” in Almanacco del Molise 1980).
Il testo è il seguente:
HOC HEDIFICIVM LANDENVLFVS
CONSTRVXIT AB IMO
LANDVLFI COMITI PROLEM ATENVLFI
PRINCIPI HORTVS
e cioe: “Landenolfo, figlio del conte Landolfo, discendente del principe Atenolfo, costruì questo edificio dalle fondamenta”.
La seconda, dopo vari spostamenti, si trova murata da circa quattro decenni a lato del portale della biblioteca comunale e reca questo testo:
LANDENOLFVS COMES
FILIVS BONE MEMORIE
DOMNI LANDVLFI COMITI
EX QVIDEM NATO ATENVL
FI PRINCIPIS ORTVS:
HOC OPVS FIERI IVSSIT
ovvero: “Landenolfo, figlio del signore Landolfo conte, discendente di Atenolfo, ordinò di fare quest’opera”.
Da un esame del testo potrebbe ritenersi che le due epigrafi siano di epoca diversa, e quindi riferibili a due distinte fasi di lavori eseguiti nel Monastero, anche se il Landenolfo citato è il medesimo personaggio.
La prima riguarda la creazione del campanile e non vi sono dubbi che esso sia stato costruito dalle fondamenta. Landenolfo non si fa chiamare conte anche se tiene a precisare di essere figlio del conte Landolfo della stirpe del principe Atenolfo.
Potrebbe ciò fare ipotizzare che il campanile sia stato iniziato da Landenolfo quando il padre era ancora vivo e quindi non ancora gli era stato trasferito il titolo di conte.
Di diverso tenore e la seconda, dove Landenolfo non solo precisa di essere “comes” ma riferisce che il conte padre è deceduto (“bone memorie“).
In questa seconda lapide manca pure la dizione “ab imo” chiara indicazione che i lavori riguardavano solo una parte dell’edificio e forse il rifacimento della chiesa.
Fatta questa premessa appare chiara la parte centrale di una bolla riportata dal Kehr: “…concedit plebem S. Mariae intra civ(itate) Yserg / iuxta fontem S. Iohannis Bapt, sitam, Landinolfo / comiti, filio Landolfi Graeci, qui ecclesiam cum / bo. me. (bonae memoriae) Gemma coniuge readificavit, / regendam in dominium et potestatem; decernit, ut / episcopus Yserge civ. nihil omnio de rebus vel / ornamentis ipsius ecclesiae tollere praesumat; / instituit servitores ecclesiae ab episcopio vel, / si contempeserit, a sede apost. iudicandos. Offici Nostri. SCR. P. M. Petri not. S.R.E. IN M. (mense octobri) etc“.
Questa bolla, per una serie di erronee trascrizioni ed interpretazioni fu attribuita a Giovanni IV e collocata temporalmente nel 640, mentre si trattava di un documento firmato, secondo il Kehr, da Giovanni XVIII nell’anno 1004.
Landolfo il Greco potrebbe essere lo stesso Landolfo delle due epigrafi e che vediamo poi sepolto nella cattedrale di Isernia, il cui figlio Landenolfo, insieme alla moglie Gemma “ecclesiam… readificavit“, secondo la bolla, oppure “hoc opus fieri iussit“, secondo l’epigrafe.
Ed a Landolfo, padre di Landenolfo, secondo Nicola Cilento è riferita la concessione di Pandolfo Capodiferro, suo fratello, datata 5 maggio 964, con la quale vengono definiti i confini della contea di Isernia.
A Landenolfo, dunque, deve attribuirsi, nell’ultimo quarto del X secolo, la riorganizzazione urbanistica del nucleo longobardo che, come abbiamo visto, è riconoscibile tra S. Maria delle Monache ed il Castello, e dal contenuto della Bolla papale è da ritenere che tale riorganizzazione era conseguenza di un ridimensionamento dei poteri del vescovo isernino.
Rivediamola per comodità nella traduzione in italiano: “(Giovanni XVIII)… concede la pieve di S. Maria dentro la città di Isernia, sita presso la fontana di S. Giovanni Battista al conte Landinolfo, figlio di Landolfo di Greco, che insieme alla defunta sua moglie Gemma la riedificò, perché la tenesse in proprietà e potestà; stabilisce che il vescovo della città di Isernia per nessun motivo osi prendere cose o arredi della stessa chiesa, i servi addetti alla chiesa debbano essere indicati dall’episcopio o, se non lo ritenesse opportuno, dalla sede apostolica…“.
Allora appare chiaro il disegno organizzativo della piccola città che, attestandosi sulla preesistente fortificazione romana in contrapposizione all’altro nucleo urbano costituitosi attorno all’antico Foro (ove era sorta la Cattedrale) e dopo essere stata simbolicamente dedicata a S. Angelo secondo la consuetudine longobarda, si definisce come entità autonoma.
Significativo è il fatto che il monastero di S. Maria sia legato all’ordine benedettino per cui gli interventi landenolfiani appaiono come sigillamento più efficace dei rapporti con quell’ordine monastico, quasi in alternativa al potere dei vescovi.
In quest’ottica la costruzione isolata del campanile, situato originariamente al centro della piazza antistante la chiesa, acquista il significato di punto reale di riferimento per l’intero territorio della contea.
La chiesa riedificata da Landinolfo dovrebbe corrispondere come impianto a quella che si vede dopo il restauro che ne ha, comunque, stravolto ogni idea spaziale.
L’abside circolare rivolta a sud-est ed attestata sulle mura romane del III secolo a.C., limitava la navata principale.
Le due navate laterali invece terminavano con pareti rettilinee ed erano separate da quella centrale mediante colonne formate da rocchi di provenienza romana sormontati da arcatelle a tutto sesto.
Una cripta nell’area absidale era sovrastata dal piano dell’altare che in tal modo era notevolmente sollevato rispetto al livello generale.
Non sappiamo se il muro trasversale, di cui rimane traccia verso l’attuale ingresso e che originariamente conteneva l’unico portale sulla facciata, era anticipato da un porticato o da un nartece come lo è attualmente.
Per quanto riguarda il campanile possiamo ritenere con assoluta sicurezza che la parte inferiore corrisponda all’intervento di Landinolfo come chiaramente dimostrato dalla lapide che abbiamo riportato e che è posta a circa un metro dal piano di calpestio dell’atrio del convento, sul lato sud-occidentale.
Purtroppo anche in questo caso il restauro ha cancellato ogni traccia dell’originaria costruzione anche se per fortuita combinazione si sono potuti effettuare i rilievi prima che si iniziassero i lavori.
Dai disegni delle sezioni si nota chiaramente che l’attuale forma è il risultato di una sovrapposizione duecentesca all’originario impianto longobardo del X secolo quando la costruzione era caratterizzata da una serie di monofore sovrapposte le quali furono chiuse allorché l’ampliamento del monastero avvolse il campanile.
Sia la posizione della lapide, che evidentemente in origine doveva poter essere vista da tutti e non solo dalle monache, sia le monofore successivamente murate, sono una ulteriore conferma che inizialmente la torre campanaria troneggiasse in mezzo alla piazza e che quindi non essendo collegata funzionalmente alla chiesa di S. Maria, servisse come mezzo di comunicazione per tutta la comunità.
Nuove modifiche dovettero avvenire nel complesso monastico nel XIII secolo in conseguenza delle donazioni di cui riferisce Ciarlanti:
“L’antico Monastero di Monache di S. Maria d’Isernia, fu adornato di gratie singolari da Sommi Pontefici, e dall’imperador Federigo II. Papa Honorio III lo pigliò sotto l’apostolica protettione a quel modo, che però l’havea Alessandro II e li confermò tutti i beni ch’all’ohora havea, e era per havere in perpetuo, con le chiese di S. Angelo a Monte Lucculo, S. Matteo e S. Placido, e con tutte le giurisdittioni, e libertà, che gli erano state date dal Conte Malgerio, e da Gemma sua moglie nuovi fondatori di quello, come per lo privilegio spedito in Laterano a 24 ottobre 1217 che originalmente in esso monastero si conserva, in cui sta sottoscritto il Papa, con tredici Cardinali. Gregorio IX li concesse altre prerogative nel 1231 a 26 di settembre in Anagni. L’imperador Federigo lo ricevé parimenti sotto l’imperiale protettione, ordinando a gli ufficiali che gli osservino e facciano osservare tutte le sue immunità e libertà, e ne gli spedì privilegio a 10 agosto 1237. E essendo poi anche molestato in certe esattioni per aiuto degli eserciti, ne li spedì un altro più ampio e più favorevole sotto pene gravissime in Foggia nel 1240 a 20 di Maggio conservandolo con quelle stesse giurisdittioni e immunità che si trovano a tempo del Re Guglielmo il buono.
E credesi che tanto liberale se li mostrasse per intercessione di Benedetto d’Isernia suo Gran Cancelliero del Regno, ch’era avvocato e protettore di esso Monastero“.
A questo periodo, e dunque in conseguenza della protezione imperiale di Federico II, possiamo far risalire quegli interventi architettonici che in larga misura caratterizzano gli attuali prospetti esterni della chiesa e la sopraelevazione del campanile.
Duecenteschi infatti possono essere definiti i capitelli del portale della chiesa mentre di recente invenzione le pentafore con colonnine e stampelle ai lati di esso.
Similmente del XIII secolo, senza escludere la riutilizzazione di pezzi più antichi, appaiono la bifora e le monofore del campanile con i relativi capitelli.
Tra questi ultimi quelle di maggiore pregio e sistemato al centro della bifora rivolta a settentrione ed é caratterizzata agli spigoli da quattro figure di angeli con le mani incrociate sul petto.
La tipologia diversificata delle bifore fa ritenere che nella realizzazione di esse si sia fatto molto uso di materiale di spoglio.
La sopraelevazione del campanile o comunque la sua ridefinizione architettonica dovette essere conseguenza dei privilegi riferiti dal Ciarlanti facendo collocare nel principio del XIII secolo un sostanziale ampliamento della chiesa e del monastero che cominciava così ad inquadrarsi in una nuova dimensione urbanistica la quale trovò definitiva sistemazione alla fine del medesimo secolo.
Nulla sappiamo delle trasformazioni successive. Certo è che nel XVIII secolo il complesso monastico si trovava profondamente trasformato.
Ne abbiamo una dettagliata descrizione dal Vetromile che nella ricognizione dei beni esistenti nella città nel 1744 così si esprime:
“Monastero e chiesa di S. Maria di Ordine Benedettino.
Questo Monistero sta sito e posto nell’abitato della città, poco discosto dalla Porta da piedi consiste nel fronte della suddetta strada principale in una porta che da l’ingresso in un attrio, seu cortile coverto, a destra del quale mediante arco di fabrica si trova un attrietto coverto, ov’e la porta battitora della clausura d’esso Monistero, accosto al quale attrio vi è belvedere con campanile sopra, ove sono quattro campane e l’orologio. In testa di detto cortile scoverto per arco di fabrica si passa in un attrietto coverto con lamiozze dipinte, a destra del quale vi è Grata, seu Parlatorio, corrispondente a detto Monistero; ed in testa, porta, che mediante ad un attrietto situato sotto ad un coretto si entra nella chiesa, qual’è divisa in tre Navi con pilastri ed archi di fabrica ornati di stucco, una grande nel mezzo e le altre picciole; nei lati sono coverte con suffitte di tavole depinte, con suolo di riggiole pittate; nella piccola nave a destra vi sono due cappelle cogli altari di fabrica e cone di stucco: la prima sotto il titolo di S. Francesco di Paola, la seconda di S. Stefano, e tra dette due cappelle vi è altra grata corrispondente a detta clausura. Nell’altra nave a sinistra vi sono due altri simil cappelle: la prima di S. Benedetto e la seconda della B.ma Vergine dell’Assunta. In testa poi a detta nave grande, mediante cinque scalini di marmo s’impiana alla tribuna di detta chiesa, ov’e l’altare maggiore con cona di legname indorata e quadro nel mezzo di S. Giuseppe, dietro della quale cona vi è altro coretto di detta clausura con porta corrispondente alla sagrestia, ed in essa chiesa vi è l’organo ed il pulpito di legname.
Nella suddetta clausura vi sono presentemente Religiose professe n.ro 29 quasi tutte di nobil condizione, tre educande, dodici converse; tiene d’entrata ducati mille incirca, e la dote di dette monache, cioè quella delle cittadine e di duc. 400 e quella delle forastiere e di duc. cinquecento”.
Dalle uniche due fotografie che ci sono pervenute si può notare che così ancora si presentava la chiesa prima dell’ultimo conflitto mondiale.
Il restauro è cosa dei nostri giorni ed è di una tale gravità per cui vale la pena narrare i danni maggiori.
La discutibile litania di interventi iniziò dieci anni fa, nel 1972, quando la provvisoria copertura del colonnato salvatosi dalla guerra assunse l’aspetto di soluzione definitiva confermando il metodo tutto italiano secondo cui le cose provvisorie sono le più durature.
Una copertura che ha talmente modificato il senso spaziale della basilica a tre navate da farla ora apparire quale peristilio interno di una domus romana.
L’ira funesta si trasferì, non appena arrivarono altri fondi da spendere in qualche modo, sul campanile e ci volle tanta buona volontà per cancellare ogni traccia dell’originario impianto del X secolo, di cui si conservavano murate tutte le monofore ora fagocitate definitivamente dal cemento che in eterno le ha tolte dalla vista di chiunque.
Fu miseramente distrutta la bella scala di legno che articolandosi nel cavo della torre campanaria da sola testimoniava tutte le trasformazioni subite dalla chiesa nel tempo e soprattutto rappresentava una eccezionale documentazione dell’attività artigianale di Isernia antica.
Fu sostituita da ignobili solai in tavelloni e putrelle in ferro che non solo non sono serviti a consolidare la struttura ma che hanno pure stravolto l’architettura interna della torre campanaria, privata di quella sua spazialità interna che era la necessaria cassa armonica per la diffusione del suono delle campane. Del resto pare che quando si restaura l’ultima cosa a cui si pensi e quella di capire a che cosa serva il monumento oggetto delle attenzioni. Per questo un campanile diviene semplicemente un mucchio di pietre più alto degli altri.
Una volta cancellato l’interno si pensò bene di salvare qualche brandello di epidermide integrando il vecchio intonaco, che ormai aveva acquisito la patina della storia, con “cemento critico”. Il risultato finale lo si ammira da qualche anno.
I restauri successivi dal campanile scesero sempre più in basso (… e non solo nel senso altimetrico).
Fu la volta del sottotetto, altrimenti detto pomposamente “Salone Superiore”, in evidente antitesi con il bel “Sa1one Inferiore”, originariamente refettorio delle monache.
La storia di questo salone “Superiore” è desolante. Era nato come timida sopraelevazione ottocentesca per la necessità di ricavare una capiente camerata per i militari della caserma Griffini che vi si erano allocati dopo che il complesso era state acquisito al Demanio dello Stato.
Per un michelangioloide senso dell’arte del “levare” si ritenne opportuno smantellare le originarie capriate ottocentesche, senza rendersi conto che poi bisognava ricoprire di nuovo.
Una volta scoperchiata la camerata bene si pensò di approfittare del fatto che l’unico Ente che può elusivamente aumentare le cubature nel centro storico è la Sopraintendenza, e si guadagnarono diverse centinaia di metri cubi inventando un cordolo di cemento che mai era esistito.
Intanto delle originarie capriate si era persa ogni traccia ed ovviamente si dovettero sostituire con altre costruite ex-novo “in stile”.
Un nuovo ripensamento costrinse poi a nasconderle alla vista e fu realizzata una costosissima controsoffittatura a travi reticolari con la giustificazione fantasiosa che gli eventuali pannelli espositivi poggiati sul pavimento avrebbero potuto creare problemi statici alle solidissime volte che da circa un secolo avevano retto senza problemi i tramezzi in muratura ora eliminati.
Tutti gli intonaci del monastero furono scorticati e le porte originarie sostituite da altre, anch’esse in falso-antico.
L’ultimo (solo in ordine di tempo) sconcertante intervento riguarda la parete liberty nord-orientale che pareva essersi salvata dagli assalti Ministeriali e che invece ha dovuto subire l’identica triste sorte delle altre murature.
Il magnifico intonaco alla “romana”, che nessuno sa più fare, è stato sostituito con gelidi intonaci “sabbia e cemento” con quell’anonima tinta finale che ormai in gergo viene chiamata “grigio-sopraintendenza”.
Il rabbercio affrettato si è concluso con un pasticcio di bifore e portali liberty, lapidi longobarde, pietre incorniciate, ma di nessun valore, archi veri falsamente evidenziati, anonimi tagli di intonaco che non dicono più niente, mentre l’unico a resistere è il cavo elettrico dell’Enel, che neanche il Ministero è riuscito a smuovere.
Vale la pena intanto di richiamare quanto Gaetano Miarelli scrisse nel 1979 in “Monumenti nel tempo” a proposito del restauro di S. Maria delle Monache: “Un episodio doloroso ed emblematico, come purtroppo molti altri, che chiama alla mente il monito di Ruskin: Sorvegliate un edificio antico con cura assidua; proteggetelo meglio che potete, ed ad ogni costo, da ogni pericolo di sfacelo. E’ il nostro primo dovere verso ciò che non ci appartiene completamente“.
E mentre si ragionava della storia e delle problematiche di questo monumento, sulle antiche mura è stata calata un’ignobile ferraglia. Con i soldi dei contribuenti.
Queste fotografie fanno male agli occhi!
Caro FPaolo,
spero ti riferisca solo alle ultime due…..
In risposta al commento precedente:
Non parlavo “solo” delle ultime due immagini….Anche la terzultima è una strage…Mi chiedo se il progettista responsabile abbia MAI pensato di concludere l’opera con il posizionamento, non so, di un bel linoleum fucsia…secondo me ci starebbe bene!
Sembra la copia fatta con i Lego dell’Akron Art Museum realizzata da Coophimmelb(l)au…
Non pago di ciò, il geniale progettista mi pare che abbia operato con lo stesso metodo anche in altri siti del Molise…
Roberto Tomassoni