Antichità sannitiche

Il territorio di Colli a Volturno Preesistenze sannitiche e romane alla colonizzazione dei monaci di S. Vincenzo

By 8 Maggio 2010 Marzo 23rd, 2011 2 Comments

Il territorio di Colli a Volturno

Preesistenze sannitiche e romane alla colonizzazione dei monaci di S. Vincenzo

Franco Valente

dall’Almanacco del Molise 1986

L’ormai acquisita consuetudine di osservare il territorio che ci circonda per godere degli elementi paesistici od architettonici in esso contenuti, da molti è ritenuta attività culturale di recente diffusione. Tale affermazione parte dal presupposto che solo dalla fine del secolo scorso, soprattutto con la formazione in vari paesi di associazioni sul tipo del Touring-Club, si sia avviato un vasto movimento di viaggiatori che, organizzati in determinati modi e proponendosi il fine di conoscere il mondo, conseguivano anche la finalità di incentivare attività economiche collegate alla necessità di avere a disposizione strutture alberghiere, luoghi per la ristorazione, mezzi di trasporto, musei, parchi, attrezzature di ogni genere.

Molto spesso però a questa importante moderna attività non si accompagna una reale conoscenza delle radici storiche, delle condizioni economiche, delle tradizioni sociali che hanno determinato quel particolare paesaggio, quelle particolari strade, quella particolare, e magari oggi scomoda, conformazione dei centri urbani.

Accade così che pur rimanendo estasiati di fronte alla monumentale emergenza delle Mainarde, o pur fermandosi ad osservare la straordinaria dominanza di rocche e Castelli che da secoli si affacciano a controllare la valle, o affascinati dal mutare dei colori del Volturno nelle varie stagioni quando alle acque scure e limacciose dell’autunno si sostituiscono quelle cristalline, ricche di preziose sfumature, dell’inverno e della primavera, non si abbia la possibilità di comprendere fino in fondo quale sia stato il rapporto e quali siano i significati determinati dalla presenza dell’uomo attraverso i millenni.

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Il nostro atteggiamento moderno, spesso dissacrante e violento nei confronti del territorio, in realtà si sovrappone, se addirittura non si sostituisce, ad un modello di comportamento che agli antichi derivava non per un mero gusto paesaggistico, bensì per una precisa scelta religiosa che aveva come base il rispetto e la venerazione della natura.

Non per nulla ancora oggi una salda tradizione contadina, spesso inconsapevolmente, ma comunque per un consolidato rapporto orale che si è tramandato da padre in figlio, ci consente di comprendere quali siano state le motivazioni economiche che nei millenni hanno determinato rapporti umani, forme architettoniche, assi stradali, nuclei urbani, in una parola la società attuale e la sua storia.

Una storia che non è fatta solo di episodi che si sono succeduti nel tempo, in senso diacronico, ma che è anche ricca di fenomeni che proprio perché contemporanei si sono reciprocamente condizionati. Ne consegue che ogni più piccola vicenda del territorio della Valle del Volturno acquisti valore di testimonianza monumentale se chiaro è il contesto nel quale va a collocarsi.

Un contesto dal quale, per una serie di vicende economiche che hanno interessato la penisola italiana, la realtà molisana si è sentita per vari secoli esclusa e nel quale oggi a fatica cerca di risistemarsi.

Anzi dobbiamo dire che dalla metà del XVII secolo, da quando cioè il canonico della Cattedrale di Isernia Gio.Vincenzo Ciarlanti elaborò le «Memorie Storiche del Sannio», (1) fino al nostro secolo nessuno aveva più compreso l’importanza storica del territorio Molisano tanto che addirittura per Sannio oggi si intende un’area geografica, quale è quella Beneventana, che è invece assolutamente periferica al vero Sannio il quale invece trova il suo cuore alla congiunzione dei tre bacini idrografici del Trigno, del Biferno e del Volturno.

La conferma ci proviene non solo da un attento riesame delle narrazioni storiche delle fonti romane, prime fra tutte quelle di Strabone e di Livio, ma soprattutto dalla enorme quantità di scoperte archeologiche che negli ultimi anni stanno offrendo al mondo scientifico la possibilità di riconsiderare con un’ottica diversa la storia dei popoli italici, per molti versi oscurata dalla violenta prepotenza della conquista romana.

Un confine di proprietà, un tracciato stradale, una chiesa, una cinta muraria, o dei blocchi di pietra sistemati in un particolare modo, nonché i nomi dei luoghi che per tradizione orale vengono tramandati, sono elementi utilissimi per ricostruire vicende che molto spesso neanche i libri di storia riportano.

Colli a Volturno, per esempio, deve la sua esistenza a due circostanze particolari: la catena delle Mainarde insuperabile agevolmente per chi dal Lazio doveva spostarsi verso la Puglia, la conformazione della valle del Volturno che proprio presso il nucleo abitato di Colli presenta il massimo restringimento.

Nell’esaminare i confini del territorio di S. Vincenzo al Volturno (2) si è fatto il nome di un monte: «Monte Marthe» la cui localizzazione pur se appare difficile certamente è da porre nell’ambito della catena delle Mainarde. Ma interessante è la sua radice antica che evoca la consacrazione alla divinità italica del Dio Mares che presso i romani divenne poi Marte (3).

E non è da escludere che a Mares fossero dedicate le cime più elevate dei monti come ci ricordano i nomi ancora attualissimi di Monte Mare, Monte Amaro, Monte a Mare, Monte Marrone. E sono i monti di Marte a generare un’altra divinità che dagli italici fu chiamata Olotrone, poi trasformata in Volturnum, oggi Volturno.

Il capo d’acqua ancora ai nostri giorni testimonia la venerazione con la quale i romani si sostituirono al preesistente popolo sannitico. Vi si ritrova infatti la testa marmorea della divinità fluviale che con molta probabilità era collocata proprio alla scaturigine del corso d’acqua. Ma ancora di più rimane vivo il ricordo del dio Olotrone in un toponimo particolarmente conosciuto nella nostra valle e relativo a ponte Latrone dove la presenza contemporanea di ruderi romani e di una chiesa benedettina attestano la vetustà di un collegamento diretto dell’alta valle del Volturno con il territorio di Alife attraverso Capriati (4).

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Già queste considerazioni fanno comprendere quale importanza abbiano attribuito gli italici agli elementi geografici più appariscenti del nostro territorio. Ma tale consacrazione è però evidente conseguenza della importanza che tali elementi avevano nell’ambito di una particolare organizzazione del territorio. Gli studi più recenti hanno dato nuova luce alla storia di popoli che fino qualche anno fa era conosciuta solo per le vicende belliche con Roma. Dei popoli italici che abitavano la penisola italiana non avevamo notizie precedenti alle guerre sannitiche, descritte con dovizia di particolari da Tito Livio.

Solo Strabone riporta una leggenda che sicuramente può essere interpretata come conseguenza di fatti storici realmente accaduti ed è quella relativa alle Primavere Sacre. Quale fosse l’importanza del territorio di Colli nell’ambito del grande fenomeno della transumanza non è difficile arguirlo specialmente se si osserva la conformazione orografica della penisola italiana e se si tiene conto che prima della espansione romana notevole era il frazionamento nazionale tra i vari stati che storicamente oggi identifichiamo nel ceppo italico.

La transumanza proprio perché impegnava zone di pascolo spesso distanti tra loro centinaia di chilometri comportava anche la soluzione di grossi problemi internazionali sia in rapporto alla necessità di passaggio, sia in rapporto all’uso dei pascoli. Un vero e proprio diritto internazionale doveva quindi esistere tra i vari stati interessati dal fenomeno economico più importante della penisola italiana prima dello sviluppo delle colture stanziali agricole.

In questa ottica arrivò a svilupparsi un asse di collegamento tra i pascoli estivi della Sabina e dell’Abruzzo e quelli invernali della Puglia con tratturi che dovevano nello stesso tempo essere agevoli soprattutto per gli animali, forniti di idonee attrezzature per la sosta (quelle aree che nei tratturi medioevali prendevano il nome di riposi individuati in maniera che i guadi fossero facili in ogni stagione.

Queste caratteristiche erano però in funzione solo di chi doveva utilizzare tali tratturi. Al contrario i popoli che consentivano tali passaggi dovettero adottare particolari precauzioni non solo per garantirsi dagli stranieri che attraversavano il territorio, ma anche per costituire un valido sistema difensivo contro eventuali attacchi di popoli nemici.

D’altra parte erano le stesse popolazioni sannitiche ad utilizzare la transumanza quale unico sistema capace di fornire i mezzi non solo per la sopravvivenza fisica, ma anche per l’armamento degli eserciti o per il commercio con l’estero. In questo quadro appare chiara l’importanza del territorio di Colli che almeno dal VI secolo a.C., se non addirittura dal X secolo, era interessato dalla transumanza che dal Lazio doveva far scendere gli armenti fino in Puglia.

Significativo il permanere dell’attribuzione di romana a quella via che passando per la Falconara raggiungeva il Lazio attraverso S. Biagio Saracinisco, Atina, Sora, oppure la Puglia attraverso Isernia, dove immettendosi sull’antica via Serniese, si dirigeva verso il Tavoliere attraverso i tratturi ancora esistenti.

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Dopo la scoperta delle mura di S. Paolo (5) peraltro già conosciute con il nome di mura delle Fate senza che si attribuisse ad esse la giusta identità, possiamo con maggiore sicurezza comprendere quale importanza avesse tale strada nei rapporti allora internazionali tra le popolazioni del Lazio, del Sannio e della Puglia. Interessanti sono le conclusioni dopo i primi rilevamenti, condotti tra grosse difficoltà sia per la impervietà del luogo (raggiungibile solo con una lunga marcia a piedi) sia per la densità della boscaglia. D’altra parte forse proprio queste condizioni naturali hanno preservato, come nel caso delle altre cinte recentemente scoperte, da quelle sicure distruzioni che invece dobbiamo constatare nel caso delle mura Saracene di Longano assurdamente deturpate da una strada interpoderale costruita con fondi regionali, o quelle di S. Pietro ad Volanam, parzialmente rovinate da una strada di servizio dei carbonai.

Nella parte alta di Monte S. Paolo, là dove la singolare conformazione naturale determina un lago stagionale che d’estate si trasforma in un pascolo verdeggiante, abbiamo rilevato l’esistenza di una muratura che chiude l’apice della montagna con una fortificazione dalla presumibile estensione di due chilometri.

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Tratti di muratura, che in alcuni casi assume un aspetto poligonale per la buona esecuzione degli incastri dei massi ciclopici, sono stati misurati per complessivi 460 metri. Tali tratti in molti punti superano i tre metri di altezza e contengono grande quantità di massi la cui superficie facciale supera il metro quadrato.

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La loro tipologia si ricollega alle mura conosciute di Atina, di Castel Romano, di Longano, S. Maria dei Vignali, e delle molte altre fortificazioni sicuramente coeve, di area Sannitica. Se poi riflettiamo sulla circostanza che dopo la sconfitta ad opera dei Romani nel III secolo a.C. e soprattutto dopo il genocidio Sillano del I secolo a.C. tali mura furono rese inservibili dagli stessi Romani, ci rendiamo conto che quello che oggi rimane di queste fortificazioni Sannitiche è solo la parte meno importante. Nessuna traccia infatti rimane delle porte di accesso, che sicuramente, come si è potuto rilevare negli impianti murari di altre fortificazioni, avevano un apparato piuttosto complesso. Solo una auspicabile indagine archeologica potrebbe essere di valido aiuto.

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Indagine archeologica certamente portatrice di consistenti frutti se si pensa che per il passato numerose collezioni private di famiglie di Colli, di Filignano e di altri centri limitrofi, si sono arricchite di importanti reperti trovati superficialmente nelle immediate vicinanze delle mura. Valgano per tutti un cinturone di bronzo in perfetto stato di conservazione o l’Ercole, anch’esso di bronzo, che sebbene molto rovinato conferma che anche sul monte S. Paolo vi era attestato il culto per questa divinità fondamentale dei Sanniti.

Anche di Ercole abbiamo frequenti testimonianze nella toponomastica locale. Basti per questo ricordare vari termini di Cerreto o il nome stesso dell’albero del Cerro, ancora di più il nome dell’abitato di Cerro al Volturno.
L’Ercole di Colli, appartiene al gruppo che per fattura ed espressione viene collocato fra quelli arcaici del V-IV secolo a.C. ed è raffigurato in atteggiamento di assalto mentre con la mano destra alzata agita una clava e con la sinistra, leggermente piegata, regge una leonté, cioè una pelle di leone, che gli serve da difesa. Le rifiniture sono eseguite a bulino sia nel viso che nel petto, mediante l’applicazione di piccoli cerchi concentrici a raffigurare gli occhi e le mammelle.

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I significati votivi che si attribuivano alla figura di Ercole erano spesso diversi presso i Greci, dai quali sarebbe stato ereditato, ma è probabile che gli Italici, e quindi i Sanniti, lo venerassero soprattutto per essere anche il protettore delle greggi e dei recinti.

Sicuramente più recente, riferibile al IV-III secolo a.C. è invece un pugnale anch’esso ritrovato in agro di Colli, ma in territorio posto dall’altra parte del Volturno.

Purtroppo al ritrovamento, effettuato da persone poco esperte, è seguito un tentativo di estrarre la lama dal fodero di bronzo, con la conseguenza di rovinare proprio la parte più interessante dell’oggetto. Quel che rimane però della parte terminale è sufficiente per verificare l’affinità con altre armature sannitiche già conosciute ed in particolare con la spada esposta nella mostra sui Sanniti Pentri e Frentani (6).

Nella parte apicale di S. Paolo certamente interessanti sono pure gli avanzi di cisterne la cui utilizzazione è continuata probabilmente anche in epoca più recente, come pure degna di considerazione, in attesa di saggi archeologici per verificarne la consistenza, la grande quantità di raggruppamenti di pietra che formano piccoli recinti, probabili impianti di casupole in legno.

Ma la zona più ricca di scoperte potrà rivelarsi la parte bassa di Monte S. Paolo sia sul versante di Rio Chiaro che di quello di Rio Acquoso. Consistenti tracce di una muratura ciclopica si staccano da una parete rocciosa dove questa costituisce una naturale barriera difensiva sul lato che guarda la via Romana. Tale muro con andamento rettilineo scende verso il Volturno fino ad incrociarne un altro che funge anche da sostegno al tratturo che viene utilizzato per raggiungere la località Casalicchio.

Questo tratturo sembra perciò essere posto al limite di un sistema di fortificazioni che evidentemente non ave¬va nulla a che vedere con la parte alta del monte, ma che doveva comunque proteggere una parte di territorio, la cui importanza forse può essere di tipo cultuale.

Da notare, infatti, che proprio su un terrazzo di terra, retto artificialmente da una muratura anch’essa di tipo ciclopico, si ritrovano elementi lapidei che dovettero far parte di una qualche costruzione ed è significativo che tale terrazzo sia in rapporto visivo diretto con il territorio in direzione del punto di confluenza del Rio Acquoso con il Volturno.

Il rispetto dei luoghi presso gli italici è una delle caratteristiche principali della loro architettura, riscontrabile non solo nella geometrica regolarità distributiva delle rocche, ma anche nella sistemazione di edifici sacri. Valga per tutti l’esempio di Pietrabbondante con la studiata assialità, dove una ideale linea retta dividendo il teatro ed il tempio che è alle sue spalle, va a congiungersi con la cima fortificata di Monte Saraceno. Oppure ancora da tenere come esempio la posizione del Tempietto di Vastogirardi alle sorgenti del rio S. Angelo, o del tempio di Mefini alle sorgenti della Melfa, dove in epoca longobarda nasceranno nel primo caso la chiesetta di S. Angelo, nel secondo la basilica di S. Maria di Canneto.

Tipici esempi di continuità nei millenni di una religiosità rispettosa dei beni naturali.

Nel caso della Montagna di S. Paolo di Colli si dovrà attendere l’analisi archeologica per verificare concretamente questa ipotesi, certo però è che la scoperta casuale di una metopa che poteva far parte del frontone di un piccolo tempio stimola una ricerca in tale senso, specialmente se si pensa che vi è raffigurata la testa del toro con ornamenti cerimoniali che era il simbolo sacro, addirittura la guida dei Sanniti nella scelta dei siti per la fondazione delle nuove colonie. In tale prospettiva religiosa potrà di conseguenza essere considerato il toponimo di monte Tuoro, il monte del toro, la cui immagine i Sanniti vollero raffigurare anche nelle monete. Si veda quella conosciuta, dell’epoca delle guerre sociali, dove il toro italico viene rappresentato mentre incorna la lupa romana.

Come pure da esplorare l’area di Casalicchio dove l’apparente mancanza di mattoni e di ceramica potrebbe far desumere una utilizzazione del terreno a scopi agricoli, pur se i terrazzamenti sono sostenuti da murature ciclopiche che rivelano una fattura sannitica.

Di tipo difensivo invece la grande muraglia che si ritrova sul lato meridionale di S. Paolo che partendo dal naturale ripido scoscendimento prospiciente il Volturno si insinua lungo la fascia pedemontana che costeggia rio Chiaro. Di buona fattura i tratti di muro ancora esistenti alternati a grossi cumuli di pietra determinati dal crollo della muratura stessa. Ancora da esplorare la parte che penetra nella boscaglia, ma che comunque si intuisce di eccezionale interesse.

Problematica è la datazione della fortificazione di S. Paolo. Secondo la Regina (7) questo tipo di fortificazione presenta il massimo sviluppo durante le guerre sannitiche, cioè tra il IV e il III secolo a.C., ma non è da escludere che in tale periodo si siano semplicemente riorganizzate difese preesistenti almeno dal VI secolo.

Di tale avviso è Mattiocco (8) e noi sosteniamo questa tesi considerando che notevole è in genere la quantità di reperti in ceramica nera o in bronzo che si ritrovano all’interno delle cinte fortificate del Sannio e classificabili intorno al VI secolo a.C..

Certamente, però, la loro distribuzione non è posteriore alle guerre sociali. A quando, cioè, Silla, una volta battuta la lega degli Italici, che ad Isernia avevano posto provvisoriamente la loro capitale, provvide a demolire una per una tutte le possibili difese dei popoli avversari, comprese quelle che tra il III e il I secolo erano state realizzate dai Romani e delle quali si erano impossessate i Sanniti.

La conquista romana apportò definitivi cambiamenti nella struttura economica del territorio per la capillare utilizzazione di esso principalmente per scopi agricoli ed in via subordinata per quelli pastorali. Una grandiosa impresa, come quella dell’acquedotto che dalle sorgenti del Volturno doveva portare l’acqua alle ville ed alle campagne venafrane, è l’esempio più significativo.

Per oltre 30 chilometri (9) il suo cunicolo si snodava lungo la valle del Volturno con una grande quantità di tratti realizzati addirittura in galleria o su grandiosi ponti che l’impeto della corrente del fiume ha completamente cancellato. Si veda a tale proposito la situazione su rio Chiaro dove la sezione del condotto si conserva stagliata nello scosceso pendio della sponda meridionale e la base di un poderoso pilone appare in bella evidenza nella ghiaia del letto. Un acquedotto la cui esecuzione viene attribuita ad Augusto, anche se è più probabile che Augusto abbia provveduto più che altro a restaurare ed ad emanare appositi editti per la sua protezione.

La presenza di un gran numero di cippi lapidei disseminati nel territorio di Colli, alcuni dei quali finora inediti, attestano una discreta popolosità di quest’area in epoca romana. Infatti la loro funzione era quella di segnalare che per una fascia di otto piedi a destra ed altrettanti a sinistra nessun agricoltore poteva piantare alberi e fare colture che potessero danneggiare il cunicolo. Questo ci impone di ritenere che anche le terre di Colli fossero state assegnate a coloni di Venafro nel cui territorio era posta l’alta valle del Volturno.

A distanza di secoli i segni della colonizzazione romana ancora sono chiaramente ritrovabili nella particolare conformazione della proprietà privata, dove gli allineamenti paralleli dei confini, pur nella estrema polverizzazione attuale, rivelano una originaria ripartizione originata dagli assi ortogonali della centuriazione viritana.

Alla disfatta dell’Impero Romano seguirono momenti storici di cui ci sono pervenute pochissime e frammentarie notizie. Solo con la riorganizzazione del territorio ad opera dei principi longobardi Paldo, Tato e Taso ai primi dell’VIII secolo si ha una vera e propria rinascita culturale della valle del Volturno che proprio per essere situata sulla dorsale appenninica per tutto l’alto medioevo venne a costituire il passaggio obbligatorio dei flussi commerciali tra il nord-Europa ed il meridione di Italia (10).

Gli scavi in corso presso l’abbazia, nonché le ricognizioni sull’intero territorio, dimostrano come capillare sia stata l’azione di riqualificazione condotta dai monaci di S. Vincenzo, tanto che molto spesso le preesistenze romane o addirittura sannitiche costituiscono il punto di riferimento, se non l’impianto strutturale, della nuova organizzazione urbanistica. Tutto il territorio risente di questa presenza anche perché all’opera di colonizzazione si attribuì il valore di consacrazione del territorio. Significative sono le nuove intitolazioni di luoghi che sicuramente prima della pianificazione dei principi longobardi, poi divenuti abati di S. Vincenzo, avevano altri nomi.

Valga come esempio monte S. Paolo, ove è la rocca sannitica, la cui intitolazione al Santo risale perlomeno all’VIII secolo, se non ad un periodo ancora più antico. Lo attestano significativamente alcuni blocchi lapidei che ancora sono sparsi per la montagna e che recano elementi di sicura matrice longobarda. In particolare quello posto lungo un antico tratturo che dal monte scendeva fino al Volturno in località Ponte Sbieco è di particolare interesse. Si tratta di un macigno che prima faceva parte di un piccolo complesso rupestre, forse un altare, e che, essendo rotolato dalla originaria base di appoggio, ora presenta l’epigrafe capovolta.

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Sulla faccia più liscia compare una vipera rozzamente evidenziata con una scanalatura sottile che ne forma il contorno.
L’immagine separa nella parte alta due semplici croci di fattura altomedievale e nella parte bassa le lettere S e P riferibili chiaramente al «Sanctus Paulus» cui era dedicata la montagna.

La singolarità della raffigurazione nonché la contemporanea presenza della vipera e del nome di S. Paolo portano inevitabilmente a riconsiderare le motivazioni di una scelta iconografica che ha radici cultuali legate ad una simbologia preesistente alla cristianizzazione dei longobardi. E’ noto infatti che una delle manifestazioni tipiche della cultura religiosa longobarda fosse quella di attribuire valore sacro alla vipera, tanto che era costume tenere combattimenti spettacolari che si concludevano con la distribuzione di brandelli del rettile agli astanti.

D’altra parte nella religione cristiana la venerazione popolare per S. Paolo derivava dalla attribuzione ad esso del potere di preservare dal morso della vipera; infatti uno degli episodi della vita del Santo è quello relativo al suo passaggio a Malta. Mentre S. Paolo raccoglieva un fascio di legna da mettere sul fuoco, una vipera per sfuggire al calore si avventò alla sua mano. I maltesi presenti ritennero che ciò significasse che Paolo era un omicida, ma quando egli scosse il rettile sul fuoco senza risentire alcun male, lo considerarono un dio. (Atti degli apostoli 28, 1-6).

Oggi la montagna di S. Paolo è totalmente abbandonata, ma la sopravvivenza nella parte alta, nei pressi delle mura sannitiche, di tracce di murature facenti parti di un complesso abitato, nonché l’affiorare di una serie di sepolture aventi le stesse caratteristiche di quelle circostanti l’abbazia di S. Vincenzo, fanno ritenere che prima dell’XI secolo quell’area fosse utilizzata anche per colture agricole e che su S. Paolo fosse sistemata almeno una famiglia di coloni.

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La presenza di coloni a Colli al Volturno (il cui rapporto di concessione del terreno veniva riportato su un libellus, da cui poi il termine di “livello” per questo tipo di contrattazione), è documentata nel Chronicon a partire almeno dal 972, ed è confermata per il 981 e per il 988. Ed è a quest’epoca che deve farsi risalire la costituzione di un organico sistema di difesa attorno al nucleo abitato che ancora oggi esiste. In questa ottica e considerando la pericolosità delle strade di costa per la presenza di popolazioni Saracene che stabilmente occupavano il litorale, Colli assunse una importanza strategica considerevole.

Conosciamo ampiamente quale considerazione vi avessero dato gli abitanti di S. Vincenzo sul piano della organizzazione economica, sicché la scelta militare di porre una difesa non fu meno importante. Lo si desume dal nome stesso che originariamente ebbe il nucleo urbano che con la dedicazione a S. Angelo, cioè a S. Michele Arcangelo, il primo e più importante degli Angeli, esprime proprio la volontà di riconoscere in esso uno dei baluardi del sistema difensivo longobardo. Colle di S. Angelo dunque sta a significare proprio luogo particolarmente fortificato essendo gli arcangeli nella tradizione iconografica longobarda i Santi guerrieri e protettori dei territori conquistati. Lo si può riscontrare nei vari S. Angelo di Isernia: S. Angelo del Pesco, S. Angelo in Grotte, S. Angelo dei Lombardi, ecc..

Quale fosse la forma del primo nucleo di Colli può desumersi non solo comparandolo ad analoghi nuclei fortificati dove già sono stati eseguiti rilievi e saggi nelle murature ma anche da un sommario esame delle planimetrie catastali. Il nucleo più antico così come si presenta oggi rappresenta la sovrapposizione organica di elementi architettonici succedutisi in un arco di tempo più che millenario.

Da un originario impianto di castrum cum ecclesia adatto soprattutto per la difesa passiva si è passati man mano ad un sistema più efficiente con un organico sistema di murature. Del nucleo longobardo si ritrovano infatti tracce non solo nella parte inferiore delle mura dell’abitato, ma anche nella disposizione urbanistica.

Sappiamo che il culto per l’Assunta cui è dedicata la chiesa madre di Colli, è relativamente recente e molto spesso in altri casi si è sostituito proprio a quello degli Arcangeli. Comunque, sia la chiesa che il Castello, specialmente nei nuclei di formazione cristiana, si pongono sempre nel luogo più elevato dell’impianto urbano non solo per gli evidenti scopi difensivi, ma anche per rispondere alla esigenza religiosa di conservare in luogo equidistante da tutte le case il riferimento cultuale.

Un auspicabile rilevamento di tutti i fondaci di Colli potrebbe certamente apportare conoscenze nuove per la sua storia urbana, come del resto abbiamo potuto verificare per il castello di Cerro dove il rilievo ci ha permesso di scoprire all’interno di esso, notoriamente datato al XV secolo, un nucleo del X secolo costituito da un mastio quadrato da cui si sviluppa una cinta muraria che racchiude anche una chiesa (11).

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Il nucleo di Colli, sebbene più volte rimaneggiato dopo eventi disastrosi come i terremoti del 1349 e del 1805, presenta ancora elementi sicuramente posteriori alla fondazione longobarda, ma comunque anteriori alla introduzione della polvere da sparo nei sistemi bellici.

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Uno degli elementi più evidenti è la torre circolare, parzialmente inglobata dalle case che superando la linea muraria si sono sovrapposte in epoche più recenti. Si tratta di un manufatto databile intorno alla metà del XIV secolo in quanto non vi compare la parete a scarpa tipica delle torri dei secoli seguenti. Certamente altre torri potrebbero essere individuate nelle strutture delle case che si affacciano sul versante meridionale, dove più evidente apparve la necessità di rinforzare la linea muraria per la minore asperità del terreno.

Nessuna torre invece doveva esistere sul lato settentrionale che, essendo naturalmente protetto, non poneva problemi in caso di assalto.

Attenzione: Le note che seguono si riferiscono all’anno di pubblicazione dell’almanacco e non tengono conto dei numerosi studi pubblicati sull’abbazia di S. Vincenzo dal 1986 ad oggi:

1) G.V. CIARLANTI, Memorie Historiche del Sannio. Isernia 1644.

2) Sulla storia del territorio Volturnense e sulla sua organizzazione si possono consultare numerosi saggi e tra essi:
MARIO DEL TREPPO – Langombardi, Franchi e il Papato in due secoli di storia Volturnense,  in Archivio Storico per le Provincie Napoletane, n. 5.XXXIV (1955) pp. 37-66.
MARIO DEL TREPPO – La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno, in Archivio Storico per le Provincie Napoletane n. 5 XXXV (1056), pp. 31-100.
ANGELO PANTONI – La Chiesa e gli edifici del Monastero di S. Vincenzo al Volturno. Montecassino 1980.
OSVALDO BALDACCI – I possessi maggiori del Monastero di S. Vincenzo al Volturno nel secolo VIII, in Abruzzo rivista dell’istituto di Studi Abruzzesi a. XIV (1976).
N. F. FARAGLIA – Saggio di Corografia abruzzese medioevale in Archivio Storico per le Provincie Napoletane – XVI (1891).
ERASMO GATTOLA – La Terra Sancti Vincentii,  a cura di Faustino Avagliano in Almanacco del Molise 1981 – edizioni Enne.
FRANCO VALENTE, Il territorio di S Vincenzo ed  il castello di Cerro al Volturno in Almanacco del Molise 1983– edizioni Enne.
OTTAVIO FRAIA-FRANGIPANE – La Terra di S. Vincenzo a Volturno a cura di Faustino Avagliano – Montecassino 1982.
AUTORI VARI – atti del Convegno Una grande abbazia altomedievale nel Molise:  S. Vincenzo al Volturno, Venafro, maggio 1982. Gli atti sono in corso di pubblicazione a cura dell’abbazia di Montecassino. CHRIS WICKHAM, Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale. L’esempio di S. Vincenzo al Volturno. Firenze 1985.

3) VALERIO CIANFARANI – Culture adriatiche di Abruzzo e di Molise. Roma 1978.
F. VALENTE – Architettura ed iconografia cristiana ai limiti del territorio di S. Vincenzo in Almanacco del Molise 1985. Edizioni Enne.

4) A. MATTEI, Storia d’Isernia.  Vol. 1, pag. 38 – Napoli 1978

5) A MICHELE RADDI il merito della riscoperta e della esplorazione delle mura Sannitiche di S. Paolo. Le innovazioni della fortificazione e le prime ipotesi sulla loro consistenza storica furono diffuse nella tavola rotonda tenutasi a Colli su iniziativa della locale “Società di Mutuo Soccorso” da M. Raddi, A. Ragozzino e F. Valente il 10 dicembre 1983.

6) AA.VV. Catalogo della mostra Sanniti Pentri e Frentani, Roma 1980.

7) ADRIANO LA REGINA, in Molise, Electa editore – Milano 1980.

8) EZIO MATTIOCCO, Centri fortificati preromani nella conca di Sulmona. Chieti 1981.

9) Dell’acquedotto romano fu eseguito un rilievo nel 1938 da F. FREDIANI che ne pubblicò una sintesi in “Campania romana’. Sull’argomento si veda pure: RAFFAELE GARRUCCI, Venafro illustrata coll’aiuto delle lapidi antiche – Roma 1874.
FRANCO VALENTE Venafro, Origine e crescita di una città – Edizioni Enne – Napoli 1979.

10) Le vicende storiche di questo territorio sono state ricavate in gran parte da Chronicon Vulturnense attribuito al monaco Giovanni. Nel rinviare a quest’opera si fa riferimento alla trascrizione di Vincenzo Federici, pubblicata nei nn. 58-60 dall’Istituto Storico Italiano, in tre volumi (Roma 1925-38).

11) FRANCO VALENTE, Il territorio di S. Vincenzo ed il castello di Cerro al Volturno, in Almanacco del Molise 1983 – edizioni Enne.

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  • Alfredo ha detto:

    Molto interessante la descrizione di Colli a Volturno per quanto riguarda la sua fondazione e l’antica struttura. Per me sarebbe molto importante approfondire la questione: per cui vorrei chiedere al gentile signore che gestisce questo blog a quali fonti posso rivolgermi.

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