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Gli olivi e l’olio di Venafro

By 22 Gennaio 2009 Dicembre 9th, 2011 8 Comments

Gli olivi e l’olio di Venafro

Franco Valente

(prima parte)

Quando si cercano motivi per vantare l’olio di Venafro non si può fare a meno di ricordare gli scrittori romani che in qualche modo lo citarono.
Nel II secolo a.C. Catone nel descrivere i modi di calcolare il valore dei frutti pendenti segnalava come migliore il metodo usato a Venafro:
M. Porcio Catone, De Agricoltura, CXLVI: “Oleam pendentem hac lege venire oportet. Olea pendens in fundo Venafri venibit etc.

Quinto Orazio Flacco (65 a.C. – 8 a.C.) in una sua ode riferisce che Venafro era tutta verdeggiante perché coperta di olivi:
Q. Orazio Flacco, Odes et epodes, II, 6, vv.13/16: “Ille terrarum mihi praeter omnis / angulus ridet ubi non Hymetto / mella decedunt, viridique certat / baca Venafro …”.

Orazio, inoltre, in una delle sue Satire volle decantare come straordinaria una salsa fatta da erbe particolari e zafferano, ma solo se condita con olio venafrano.
In un’altra satira, descrivendo i piatti serviti in un banchetto nella casa di Nissideno, esaltò la bontà di una morena in una salsa fatta con olio di Venafro ricavato dalla prima molitura.

Gaio Plinio Secondo (Plinio il Vecchio) (23 d.C.– 79 d.C.), due volte si occupa dell’olio di Venafro ritenendolo il migliore in assoluto soprattutto perché il suolo era particolarmente adatto alla sua coltivazione:
G. Plinio Secondo, Naturalis Historia, XV, 1, 8: “Principatum in hoc quoque bono obtinuit orbe maxime agro Venafrano, eiusque parte, quae Licinianum fudit oleum unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unquenta hanc palmam dedere accomodato ipsis odore. Dedit et palatum delicatiorem sententiam. Coetero baccas Liciniae nulla avis appetit”;
XVII, 4, 31: “Galeosum oleis solum aptissimum in Venafrano”.

Marco Terenzio Varrone (116 a.C.- 27 a.C.) nell’elencare i prodotti agricoli migliori citava l’olio di Venafro:
M. Terenzio Varrone, Rerum rusticarum libri tres, I, 2, : ” Quod far conferam Capuano? Quod triticun Apulo? quod vinus Falernus? quod oleum Venafro?”.,

Strabone (I sec a.C.) nel descrivere in greco le città ed i territori dell’Italia citava Venafro per essere il luogo da cui proveniva l’olio migliore:
Strabone, De Geographia., V, 3, 10: “Poi vi sono alcune altre località, fra cui Venafrum, da dove proviene l’olio migliore.”

Marco Valerio Marziale (40 d.C. – 103 d.C.) parlava dell’olio di Venafro per decantarne le qualità come base per gli unguenti:
M. Valerio Marziale, Epigrammaton, XIII, 101: “Hoc tibi Campani sudavit baca Venafri / unguentum quoties sumis et istud olet”;  XII, 63, vv. 1-2, “Uncto Corduba laetior Venafro / Histra nec minus absoluta testa.

Sicuramente l’autore che più di ogni altro prese a pretesto l’olio venafrano per maltrattare uno strano personaggio romano, fu Giovenale in una sua satira su Virrone:

D. I. Giovenale, Satirae, I, 5, v.85: “Ipse venafrano piscem perfudit: at hic, qui pallidus adfertur misero tibi caulis, olebit lanternam …”

Ma conoscere la citazione non serve a nulla se non si racconta tutto l’episodio.
Virrone era un padrone di casa sicuramente molto particolare perché si divertiva a trattare male i suoi ospiti.
Giovenale racconta che una sera egli riservò per sé il vino invecchiato e raro, mentre agli invitati dette un vino pessimo che immediatamente li rese ubriachi sicché la cena si trasformò in una zuffa tra invitati suoi amici ed invitati che erano ex schiavi che vennero alle mani.
Virrone beveva in coppe di ambra e di berillo. Se gli invitati bevevano in quelle coppe, li faceva controllare dai suoi servi per evitare che qualcuno le rubasse.
Gli invitati venivano serviti da uno schiavo nero dall’aspetto spaventoso mentre  Virrone era assistito da un servo di bell’aspetto che faceva finta di non sentire gli ordini degli altri.
Pane duro ed ammuffito viene dato agli ospiti e appena qualcuno cercava di prendere il pane morbido e bianco servito al padrone, interveniva una guardia che lo induceva a rinunciare.
A questo punto il colpo di scena. Viene servita un’aragosta che, in un letto di asparagi, mostra la coda verso i poveri invitati ai quali viene servito un gambero su mezzo uovo sodo.
Sul pesce Virrone versava olio di Venafro, mentre agli ospiti veniva dato un olio lampante, cioè quello usato per le lucerne.
Un olio che era così acido che una volta un tale che lo aveva usato alle terme dopo il bagno, fece allontanare tutti per il tanfo prodotto da quell’unguento.

L’olio di Venafro così famoso era “l’aurino”, così detto per il colore aureo che lo caratterizza. Un olio che si faceva con quella particolare oliva che ancora oggi di chiama Liciniana in memoria del leggendario Licinio che l’avrebbe importata in Venafro in un’epoca imprecisata, addirittura sannitica.

A questa leggenda attinse anche Vincenzo Cuoco che nel suo romanzo storico “Platone in Italia” dedicò un intero capitolo (V. Cuoco, Platone in Italia, LV, Napoli 1861) riportando la lettera che Cleobulo avrebbe scritto a Platone per riferire una storia riaccontata dal vecchio possidente sannita Attilio di Duronia:
“Abbiamo tentati e vinti molti siti; ve ne rimangono ancora molti altri da tentare. Voi Greci credete che l’ulivo non prosperi a quaranta miglia dal mare; tempo fa lo credevamo anche noi; e gli abitanti delle Mainardi e della Maiella erano costretti a comprar l’olio dagli abitanti delle terre vicine al mare. Il mio amico Licinio ha voluto introdurre l’ulivo nella sua patria. Egli era cittadino di Venafro. Dopo lunghe ricerche, fra le tante specie di questa pianta, ne ha trovata finalmente una capace di sostenere il freddo delle paterne montagne; e l’olio di questo ulivo non cede all’olio dei Salentini e dei Tarantini.
Voi forse talvolta passerete per Venafro. Vedrete le petrose falde delle Mainardi ricoperte dell’albero sacro a Minerva.
Dimandate a quegli abitanti qual nome esso abbia? Tutti vi risponderanno Licinio. Quando sarete al sesto miglio di là da Venafro, sulla via che conduce a Capua, nel sito appunto ove il Durone scarica le sue poche acque nel Volturno, voi vedrete una colonna, sulla quale vi leggerete queste parole:
Questo monumento
i buoni cittadini di Venafro
hanno innalzato
all’ottimo loro concittadino Q. Licinio
il quale
il primo, ha introdotto nelle terre venafrane
l’utile ulivo.
Verrà un tempo o passeggiero
e questo monumento non vi sarà più
sarà stata anche Venafro
e delle sue leggi e delle vittorie dei suoi figli
la fama ne parlerà appena
simile al vento che bisbiglia tra le vallate di Picino.
Ma noi abbiamo imposto il nome di Licinio
all’ulivo che era suo dono
onde i posteri possano rammentarne il donatore
anche quando il tempo avrà distrutto
il nostro monumento e la nostra città
ed avrà fatte obliare
le sue leggi e le sue armi”

Di questa colonna ricordata da Vincenzo Cuoco non si sa più nulla, anche se Giovanni Sannicola (G. Sannicola, Poche parole sulla città di Venafro e sul monumento eretto nella stessa in onore di Licinio, Napoli 1845) sostenne che era stata posta nel territorio di Pentime, oggi in agro di Sesto Campano, a segnare il luogo in cui sarebbe stato sepolto Licinio.

(Continua in http://www.francovalente.it/2009/01/27/gli-olivi-e-l%E2%80%99olio-di-venafro/  )

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