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Nel 1022 un imperatore a S. Elia a Pianisi. Enrico II a S. Petrus in Planaci per recarsi dall’Adriatico a Benevento.

By 14 Luglio 2013 Dicembre 8th, 2014 One Comment

Nel 1022 un imperatore a S. Elia a Pianisi.

PRIMA PARTE

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http://www.francovalente.it/2013/10/07/da-pianisi-a-campodipietra-litinerario-di-enrico-ii-per-recarsi-a-benevento-nel-1022/

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http://www.francovalente.it/2013/11/14/enrico-ii-nel-molise-anno-1022-borrello-di-pietrabbondante-atenolfo-di-capua-e-poppone-di-carinzia/

 

Questo articolo contiene anche considerazioni originali. Chi ne fa uso è pregato di citare la fonte. Grazie!

Enrico II a S. Petrus in Planaci per recarsi dall’Adriatico a Benevento.

8) S. Pietro a Pianisi (2)

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Nel 1022 Enrico II, con un esercito di settantasettemila soldati, scendeva in Italia dirigendosi verso la Puglia per fare fronte alle minacce espansive dei Bizantini. Durante il suo viaggio si fermò a Sancus Petrus in Planaci per decidere su una vertenza tra i duchi longobardi Attone e Pandolfo e l’abate di Montecassino.

Qualche anno prima Bojannes, inviato da Basilio imperatore di Bisanzio, aveva mandato a Pandolfo III principe di Capua e fratello di Atenolfo, abate di Montecassino, una non piccola quantità di denaro (non parvam pecuniae summam) perché gli fosse permesso di attraversare la Longobardia per inseguire Datto che si era rifugiato sul Garigliano .

In effetti non si trattava solo di farsi autorizzare un passaggio, ma di avviare una concreta trattativa perché si assecondasse il desiderio di Basilio di spostare i confini dell’impero dalla Puglia inglobando la Longobardia, che costituiva l’estremo limite meridionale dell’impero carolingio.

Dell’itinerario compiuto da Enrico II con quarantamila soldati, da Poppone di Carinzia con diciassettemila soldati e di Pellegrino (Pilgrim) di Colonia con ventimila soldati si sono sempre occupati gli storici dando per scontato che fosse attendibile una interpolazione di Pietro Diacono con la quale egli affermava che Sancus Petrus in Planaci si trovasse nel Comitatu teatino, ovvero dalle parti di Chieti .
A Sanctus Petrus l’imperatore si era fermato per risolvere una vertenza tra i principi longobardi Attone e Pandolfo e l’abbazia di Montecassino per il possesso di cinque castelli nel territorio di Termoli. L’erronea localizzazione di Pietro Diacono ha portato a individuare un percorso del tutto illogico che Enrico II avrebbe compiuto per recarsi dalla costa adriatica a Benevento dove lo attendeva papa Benedetto VIII.

Un’altra sentenza venne pronunciata in quella occasione da Enrico II a Campus de Petra in territorio beneventano. Anche in questo caso la localizzazione di Campus de Petra nell’attuale Campodipietra non era ritenuta compatibile con l’itinerario deviato per l’Abruzzo.

Ma a parte la ricostruzione precisa dell’itinerario di Enrico, una seconda questione riguarda l’individuazione del castello presso il quale si rifugiò l’abate Atenolfo per evitare l’arresto da parte di papa Benedetto VIII che si dirigeva verso Montecassino scortato dai ventimila soldati comandati da Pellegrino di Colonia che nel frattempo aveva arrestato Pandolfo III.

Una terza questione, poi, riguarda l’itinerario compiuto da Benedetto VIII per raggiungere Benevento dopo essere passato per Montecassino.

La corretta collocazione geografica di Sanctus Petri in Planaci permette di rimettere in ordine il tutto e dare una soluzione logica agli spostamenti dei tre eserciti di Enrico II, Poppone e Pellegrino e di papa Benedetto VIII alla volta della Puglia.

I fatti
Enrico II imperatore era nato a Hildesheim nel 973. Nel 1002 fu eletto re di Germania succedendo a Ottone III.
Scese varie volte in Italia. La prima volta nel 1003 per riprendersi il regno a Pavia. Vi sarebbe tornato nel 1013.

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Intanto nel maggio del 1012 Teofilatto, figlio di Gregorio di Tuscolo, veniva eletto papa scegliendo di farsi chiamare Benedetto VIII.
La circostanza è significativa per capire che il suo papato sarebbe stato fortemente indirizzato non solo a favorire l’organizzazione benedettina che faceva capo a Montecassino, ma anche quella degli altri monasteri benedettini. Tra essi certamente quello di S. Vincenzo al Volturno.
Teofilatto mirava ad avere una intesa operativa con l’imperatore Enrico II concedendo una serie di privilegi particolari ai vescovi imperiali, tant’è che questi venne a Roma con la moglie Cunegonda per essere incoronato in S. Pietro nel febbraio del 1014.
I due obiettivi si concretizzarono anche sul piano militare nel 1022 quando Enrico II tornò per la quarta volta nell’Italia Meridionale, ma per rimettere ordine in quello che stava accadendo nella Longobardia Minore.
Personalmente, insieme al papa, guidò l’assedio di Troia in Puglia per affermare il suo dominio, ma il suo esercito fu decimato dalla peste. Egli stesso vi rimase colpito rimanendone menomato. Recatosi a Montecassino attribuì la guarigione al corpo di S. Benedetto e da lì ritornò al nord per morire nel 1024 a Gottinga.

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Leone Marsicano nel 1138 riassume una questione che Enrico aveva risolto mentre si recava in Puglia: (Leonis Marsicani et Petri Diaconi, Chronica Monasterii Casinensis, ed. W. Wattembach, in Monumenta Germaniae clarissimi Pertzii):

Hic eo tempore quo imperator Heinricus in Apuliam descendit (an. 1022), ut jam supra retulimus, eidem per Marchiam transeunti obvius exiit, atque ad honorem et commendationem hujus loci strenuisse deservivit. Quo etiam in loco qui dicitur Sanctus Petrus in Planaci residente cum universis magnatibus suis, in eorum omnium praesentia proclamavit super Attonem et Pandulfum comites de rebus sancti Benedicti in comitatu Termulensi, que ipsi tunc temporis retinebant; quae sunt nominatim castella quinque, id est: Petra fracida, Pescloli, Guardia, Ripa Ursa, et Montebellu, cum monasterio sancti Benedicti et sancti Nycolai, et cum aliis ecclesiis intra eorundem castellorum pertinentias positis, intra hos videlicet fines. A capite Rivus Planus; a pede vero, mare cum ipso littore suo et portubus atque piscationibus; ab uno latere flumen Trinium, ab altero autem rivus qui diciture Teccle. Quae omnia in praesentia praedicti imperatoris et magnatum ipsius praefati comites refutaverunt ad partem hujus nostri monasterii, et ipse imperator manu sua investivit supradictum domnum Theobaldum de omnibus ipsis, obligans tam illos quam et omnes qui deinceps ista aliquomodo invadere praesumpserint, poena duum milium librarum auri in monasterio isto.
Sequenti etiam tempore proclamavit in placito Trasmundi comitis super quodam Tresidio, qui retinebat de terra sancti Liberatoris multas possessiones, et manifestante se illo, ac refutante, omnia recollegit.

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La vicenda è complessa e riguarda il possesso che il monastero di Montecassino da tempo aveva sulle terre a est e a sud del Trigno in finibus Termulensis.

Leone riferisce che in loco qui dicitur Sanctus Petrus in Planaci Enrico II abbia deciso definitivamente su una vertenza che riguardava i conti termolesi Attone e Pandolfo i quali si erano appropriati di cinque castelli che venivano espressamente elencati insieme ai territori di loro pertinenza: Petra fracida, Pescloli, Guardia, Ripa Ursa, et Montebellu, cum monasterio sancti Benedicti et sancti Nycolai, et cum aliis ecclesiis intra eorundem castellorum pertinentias positis, intra hos videlicet fines.

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Questi beni, poi, verranno richiamati in uno dei pannelli di bronzo della porta di Montecassino (sec. XI).

Orbene, mentre non esistono incertezze sulla circostanza che i cinque castelli si trovassero nel territorio termolese, qualche dubbio rimane circa la individuazione topografica di quel luogo che viene chiamato S. Pietro in Planaci.

Nelle note della trascrizione del codice cassinese il Pertz, senza commentare, riporta una interpolazione dello stesso Pietro Diacono: retulimus Teatinum comitatum in loco qui dicitur S. Petrus in Planaci. In altri termini Pietro in maniera del tutto arbitraria (e non è la prima volta) dice di ritenere che S. Pietro si trovi nella contea di Chieti.

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A prescindere dagli esiti della controversia, che sarà ripresa anche in epoca successiva al 1022, a noi interessa cercare di capire dove si trovi il luogo qui dicitur Sanctus Petrus in Planaci, presso il quale Enrico II si fermò con tutti i suoi funzionari e alla presenza dei quali stabilì che i conti Attone e Pandolfo restituissero i beni dei quali si erano impossessati (… cum universis magnatibus suis, in eorum omnium praesentia proclamavit super Attonem et Pandulfum comites de rebus sancti Benedicti in comitatu Termulensi, que ipsi tunc temporis retinebant…).

Non so in base a quale considerazione Pietro Diacono abbia posto il complesso religioso di S. Pietro in Planaci nel territorio teatino.

Nella realtà esisteva ai tempi di Pietro una località che aveva lo stesso nome e si trovava appunto nella contea di Chieti, ma non risulta dai documenti che nelle sue pertinenze vi fosse una chiesa dedicata a S. Pietro. Si tratta del castello di Planaci (o Planati) di cui si ha notizia in due atti del Chartularium Tremitense relativi a possedimenti del monastero delle Tremiti: … mediatetem castelli Planaci cum suis pertinentiis (Leonis papae IX privilegium del 9 novembre 1053) e .…medietatem de Planaci (Henrici imperatoris III privilegium del 31 maggio 1054). Una località che in una carta successiva diventa castellum quod vocatur Planati cum suis pertinentiis (Nicolai papae II privilegium del maggio 1061).
Di una chiesa di S. Pietro nella contea teatina si ha traccia nel cartulario delle Tremiti, ma nel territorio di Puliano: ecclesia Beati Petri apostoli, in loco quod Pulianum vocatur (Chartula offertionis del 1054/1056) (A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti in Fonti per la storia d’Italia n. 98, ISI, Roma 1960).

Noi abbiamo ragionevoli motivi per ritenere che si tratti invece di quel monastero che si trova nel territorio di Pianisi e che ancora oggi è dedicato a S. Pietro. Ci aiutano considerazioni puramente toponomastiche, ma anche ragionamenti logici sui possibili itinerari seguiti dall’imperatore.

Di questo antico monastero abbiamo poche e vaghe notizie. Il Masciotta, senza citare la fonte, afferma che è il più antico edificio sacro dell’agro del Comune, giacché la sua fondazione risale ai primordi del secolo XI ed è dovuto allo zelo d’un feudatario longobardo il quale, insieme con l’esteso feudo omonimo, ne fece donazione ad un abate Alberto, poi vescovo di Montecorvino.
Il cardinale di Rende, arcivescovo di Benevento, ripristinò il titolo badiale di S. Pietro, e nel maggio del 1894 lo conferì all’arciprete di S. Elia  (G.B. MASCIOTTA, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, vol.II, Napoli 1915, p. 341-42).

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Sappiamo che Enrico II era partito con un esercito di sessantamila soldati svevi, bavaresi e lorenesi e, valicando il Brennero, era sceso a Verona dove giunse il 6 dicembre 1021. Si aggiunsero a lui soldati lombardi che lo seguirono prima a Mantova e poi a Ravenna.

Da Ravenna prese il via la spedizione per raggiungere la Puglia.

Ventimila uomini furono affidati a Pellegrino, vescovo di Colonia, che prese la via di Capua passando per Roma e Montecassino. Aveva il compito di sostituire Pandolfo IV (principe di Capua che già era stato imprigionato in Germania su ordine dello stesso Enrico II) con Pandolfo V conte di Teano.

Undicimila soldati, invece, furono messi sotto il comando di Poppone di Carinzia, patriarca di Aquileia che da Ravenna sarebbe dovuto arrivare in Campania passando per Camerino.
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In verde l’itinerario di Benedetto VIII e in rosso quello di Enrico II.

 

Gli altri quarantamila soldati circa seguirono l’imperatore che, facendo la via dell’Adriatico e passando per le Marche, avrebbe raggiunto Benevento insieme a papa Benedetto VIII.

Non si conoscono le tappe effettuate dall’esercito comandato personalmente da Enrico II, ma la sosta presso S. Pietro in Planaci ci aiuta a individuare quale strada egli abbia fatto per passare dall’Adriatico a Benevento.
Il tutto per dare un senso logico allo spostamento di quarantamila soldati che dovevano raggiungere la meta secondo un percorso breve, ma comunque sicuro.
Un trasferimento che molto probabilmente utilizzò come punti di appoggio monasteri nei quali l’imperatore fu fatto consapevole anche di questioni di una certa delicatezza che non esitò a dirimere a loro vantaggio anche in virtù dei buoni, anzi ottimi, rapporti con i Benedettini di Montecassino.
Conseguentemente possiamo immaginare, con ragionevole sicurezza, che Enrico II sia stato informato proprio nel territorio di Termoli, che necessariamente dovette attraversare per piegare verso Benevento, delle vertenze tra Montecassino e i conti Attone e Pandolfo che avevano usurpato i castelli di Petra fracida, Pescloli, Guardia, Ripa Ursa, et Montebellu.

 

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In verde l’itinerario di Benedetto VIII e in rosso quello di Enrico II.

Sappiamo che l’obiettivo di Enrico era raggiungere Troia in Puglia che, da poco fondata e fortificata dai Bizantini, rappresentava l’avamposto meglio fortificato dell’impero d’Oriente ai confini dell’impero carolingio.

Arrivato ormai ai confini della Puglia a Enrico non sarebbe rimasto che continuare lungo la linea adriatica muovendosi in direzione di Troia per il percorso più breve.

Ma qui deve essere accaduto qualcosa di particolare che abbia indotto l’imperatore ad allungare il tragitto facendo una illogica deviazione verso l’interno della penisola. E’ evidente che Enrico abbia deciso di ricongiungere il suo esercito agli altri due tronconi comandati da Pellegrino (che ormai aveva raggiunto prima Capua e poi, tornando indietro, Monteassino) e da Poppone di Carinzia che, presumibilmente, come vedremo, si trovava sulla dorsale appenninica nel territorio compreso tra Pietrabbondante e Isernia.
Peraltro Pellegrino scortava papa Benedetto VIII che con la sua presenza fisica sostanzialmente consacrava l’azione di Enrico che veniva a mettere la parola fine a una vicenda che vedeva i principi longobardi propensi a passare dalla parte di Basilio.

In questo ripensamento strategico sul nuovo itinerario S. Pietro in Planaci, nel territorio di Pianisi, diventa un punto di passaggio obbligatorio per il trasferimento dell’esercito dall’Adriatico a Benevento dove, sappiamo, i tre eserciti effettivamente si sarebbero ricongiunti per dirigersi verso Troia.
Fissato questo punto è possibile con estrema facilità capire quale sia stata la via dei quarantamila soldati che, evidentemente, dopo aver lasciato Termoli proseguirono per Campomarino,  S. Martino in Pensilis e, seguendo quel tratto che ancora oggi si chiama Francesca, per Larino.

Da Larino proseguirono per Casacalenda per raggiungere S. Pietro di Pianisi dove Enrico definì con il suo placito la vertenza tra i principi Attone e Pandolfo e Montecassino.

La decisione in qualche modo fa capire cosa stesse avvenendo dall’altra parte del versante appenninico e che Enrico fosse informato della circostanza che il papa era intervenuto direttamente nelle faccende di Montecassino  dove aveva sostituito il filobizantino Atenolfo, fratello di Pandolfo, con Teobaldo, il cui nome è richiamato nella sentenza a lui favorevole di S. Pietro in Planaci: … et ipse imperator manu sua investivit supradictum domnum Theobaldum de omnibus ipsis, obligans tam illos quam et omnes qui deinceps ista aliquomodo invadere praesumpserint, poena duum milium librarum auri in monasterio isto…

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Oggi della chiesa di S. Pietro in Planaci rimane il suo impianto planimetrico e parte delle sue antiche murature successivamente integrate con i rimaneggiamenti effettuati a più riprese nel tempo.
Nessun elemento epigrafico aiuta a fissare l’epoca della sua primitiva fondazione. Certamente per la sua datazione non è sufficiente l’esame dell’unico elemento scultoreo che è sopravvissuto alle innumerevoli trasformazioni: un agnello scolpito su una pietra arenaria ormai consunta dal tempo. Potrebbe trattarsi di quanto rimane di un agnello crucifero, ma anche la croce è del tutto scomparsa, se è vero che ci sia mai stata.

La data 1600 incisa due volte su altrettante pietre della facciata, invece, si riferiscono probabilmente a una qualche radicale trasformazione che dovette essere completata nel 1619 secondo la data recata su un’altra pietra.

Qualcosa, forse, può ricavarsi dall’analisi degli elementi architettonici di quel brandello di parete che si è salvato sul lato meridionale e il cui carattere stilistico è stato ripreso in sede di restauro quando si è ricostruita la facciata.

 

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Si tratta di una coppia di archetti ciechi che sembrano fare riferimento ad alcune architetture definibili genericamente di epoca carolingia.

Pochi e vaghi caratteri stilistici che sono comunque sufficienti per affermare che si tratti di un’architettura collocabile a cavallo dei secoli X e XI, se non anche in un’epoca più antica.

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