Qualcuno mi ha chiesto di mettere su questo blog la favolistica premessa della mia laurea sul recupero del Centro Antico di Venafro e che poi divenne l’introduzione del volume che pubblicai qualche tempo dopo, nel 1979.
Non mi sembra che da allora sia cambiato qualcosa. Anzi…
Franco Valente
… e la torre di Venafro esalò l’ultimo respiro
Una storia vera
Finalmente si decise a parlare. Già da molto tempo lo andava rimuginando tra le pietre rose dal vento e dalle intemperie, tra le radici di un’agave che l’aria le aveva sistemato su un merlo, tra i manifesti che tanti si accanivano ad attaccarle alla base. Borbottava da secoli, ma nessuno la prendeva in considerazione, finché quel giorno sbottò in un urlo feroce che atterrì tutta la città.
Tutti si chiesero cosa mai volesse quella vecchia torre che da oltre mezzo millennio se ne era stata a farsi guardare solenne e maestosa della sua antica funzione. Qualcosa doveva essere accaduto.
Essa ricordava quando la posero a guardia della città insieme ad altre colleghe con le quali si dava la mano a formare un girotondo attorno al borgo. Si era sempre sentita importante e quasi fortunata perché alla sua sinistra dava la mano addirittura al castello che ricordava bello e maestoso ma che non vedeva più da quasi duecento anni. Al castello, per amore, riferiva l’avvicinarsi di persone sospette o la presenza di gente inopportuna e provava per esso un senso di devozione tale da considerarsi la sua schiava preferita.
Ricordava pure l’amica alla sua destra, la torre d’angolo di S. Agostino, che perse di vista un centinaio di anni prima, mentre le stavano cambiando vestito. La perse di vista a causa del Municipio che per far loro dispetto si era interposto violentemente sciogliendo l’antica stretta di mano.
Quel Municipio le era stato sempre antipatico per quella presenza così inopportuna, con quel vestito così diverso dal suo. Ma ciò che non poteva digerire era la sua funzione che il suo antagonista aveva a piano terra di ozioso ricovero ai borghesi del paese. Un solo amico le era rimasto: il Campanile di Cristo.
Un amico più giovane, al quale era legata da un affetto quasi materno per averlo visto crescere alla fine del settecento quando essa aveva oltre trecento anni.
Il Campanile di Cristo a causa della sua altezza, però, era spesso distratto ad osservare quanto accadeva nella piana, sempre più impressionato dalla velocità con cui nascevano quegli orribili scatoloni in cemento armato che dalla mattina alla sera spuntavano come funghi.
L’urlo della Torre del Mercato scosse profondamente il campanile e ne furono impauriti anche una ventina di colombi che volarono con il cuore in gola cercando di guadagnare il cielo in cerca di libertà.
Dopo l’urlo alcuni secondi di silenzio turbato solo dal rumore di un calcinaccio che, staccandosi dal merlo dell’angolo a sud-ovest, cascò a pochi centimetri da un gatto che si godeva il caldo del basolato e che sfrecciò senza una precisa meta con un miagolio bestiale e i peli ritti.
L’agave irrigidì le radici nella merlatura temendo di essere scaraventata chissà dove. Passato il primo momento di panico, dal quale non furono esclusi né la Cattedrale che distava oltre mezzo miglio da essa, né il Collettivo Politico delle stalle del Verlasce che si strinse in un ellisse ancora più serrato, né la Basilica di S.Nicandro che da quasi venti anni si sentiva ridicola per la mascherata che era costretta a subire, si levò un brusio per tutto il borgo.
Ma anche il brusio scomparve all’istante quando la Torre cominciò a parlare.
Attaccò senza mezzi termini rivolgendosi al Municipio: “Vorrei sapere tu cosa ci stai a fare: tu che dovresti rappresentarci tutti, tu che dovresti essere il simbolo della città.
Fino a qualche anno fa ti serbavo rancore per avermi staccata dalla mia più cara amica, ma ora ti disprezzo per tutti gli imbrogli che fai. Tu te ne freghi di noi e della nostra storia“.
La Cupola dell’Annunziata, al “te ne freghi“, arrossì e cercò di nascondersi ancora di più sotto il tetto della chiesa che da un paio di secoli la faceva quasi soffocare.
La Torre del Mercato continuò imperterrita contro il Municipio: “Ci siamo affidati a te perché ti prendessi cura di noi e invece ci tradisci per dare man forte alla speculazione edilizia“.
Dunque, cominciavano a delinearsi i motivi della protesta.
La Cattedrale, un po’ sorda per la vecchiaia sebbene rimessa su con una cura di dodici anni di vitamine di cemento armato, in un primo momento, grazie alla vista che le si era conservata discreta, vedendo il rossore dell’Annunziata si era decisa a condannare la contestazione e lo scandalo provocato dalla Torre.
Poi, adottando la tattica appresa da alcuni vescovi venafrani, ritenne più opportuno aspettare e vedere come si sarebbero messe le cose prima di parlare.
Essa conosceva bene le traversie della vita monumentale e poteva contare su una sua esperienza plurimillenaria.
In quel momento le venne a mente la sua fanciullezza, quando era ancora pagana e la città si sviluppava dal suo colle fino a quello del Castello. Ricordava quelle sette strade belle diritte e tutte parallele sulle quali se ne incrociavano altre otto.
Ricordava a malapena di essere stata l’origine di forma circolare e il cuore accelerò al pensiero che in epoca romana essa fosse il primo monumento che appariva al viaggiatore proveniente da Roma. Non poté fare a meno di ricordare la sua conversione al credo cristiano e la profonda soddisfazione provata quando decisero di porre proprio in essa la Cattedra vescovile.
La Cattedrale dunque aveva deciso di aspettare prima di condannare o approvare l’operato della Torre del Mercato.
Questa intanto continuava a lamentarsi e a scuotersi.
A un certo punto sembrò finanche che sudasse: una gronda vecchia e arrugginita, carica di acqua che non poteva defluire a causa di un nido di passeri che ostruiva l’uscita, si spaccò all’improvviso bagnandola sulla facciata occidentale: “Ricordo quando riuscivo a vedere l’intera pianura prima che nella zona di Maiella spuntasse uno scatolone orribile che chiamano grattacielo.
Parlavo con la Basilica di S.Nicandro.
Oggi non la vedo più. Il Campanile di Cristo, con il quale è ancora in contatto, mi ha riferito che è quasi una fortuna che mi sia stata tolta dalla vista, altrimenti nel vedere le sue attuali condizioni mi sarei ancora più fessurata per le risate“.
La torre aveva la pessima abitudine di fare le proprie considerazioni ad alta voce e a volte per questo appariva pure indelicata. La Basilica di S. Nicandro alle parole della torre pianse. Pianse al ricordo dei legami giovanili con la torre, legami, ben s’intende, spirituali. Ricordò con un nodo alla gola le processioni del 18 giugno quando seguiva con occhio attento il muoversi delle fiaccole condotte dall’alto stendardo rosso fino a che questo giungeva proprio alla porta del Mercato ove la striscia di fiammelle, fermandosi, portava la notizia che la basilica anche quella volta aveva ben custodito le reliquie di S. Nicandro e che ora le restituiva al popolo venafrano.
Era ormai rassegnata ad assistere ultimamente a processioni per lei piuttosto insolite; le scappò addirittura un sorriso di compassione al pensiero di quell’anno in cui a qualcuno venne la felice idea di proibire l’accendere delle candele.
Sotto l’occhio vigile della pubblica sicurezza, incaricata dell’osservanza dell’assurda disposizione, un lugubre corteo si staccò dalla chiesa e tutt’altro sembrava fuorché la processione del “18”.
Dava piuttosto l’impressione di un funerale il cui morto era il corteo stesso. Il cielo ne rimase talmente impaurito che decise di rimediare dall’alto all’oscura cerimonia inviando un tale diluvio improvviso da far fuggire tutti.
La statua del Santo, traballante, bagnata, ma soddisfatta del provvidenziale intervento si rifugiò sotto il primo tetto che incontrò rimanendovi più di un ora in attesa che il cielo si calmasse.
Altri motivi ancora aveva la Basilica per essere scontenta.
Ad esempio non poteva mandare giù l’incredibile travestimento che le avevano imposto. La sua bella facciata romanica, per la quale addirittura avevano costruito la strada che la collega alla città, aveva subito un tale rimaneggiamento da rendere l’idea e l’immagine di quelle signore, piuttosto attempate, che vanno in giro con quei trucchi vistosi e pendagli multicolori nel tentativo di mascherare lo sfascio degli anni. La differenza però era che la Basilica simile travestimento non lo aveva mai richiesto. Erano stati i Cappuccini e il Genio Civile che per divertirsi avevano approfittato della sua vecchiaia per abusare di lei. Quel campanile a lato che le scimmiottava il portale in un tentativo di cattiva imitazione, quel feroce balconcino attaccatole al lato come una borsetta, quel timpano piazzatole in testa come l’imbuto in testa ad una marionetta, quel convento a finti mattoni: tutto contribuiva a farla sentire ridicola.
In molti avevano approfittato e abusato della sua vecchiaia.
Una volta le dissero chiaramente che si era fatta vecchia e superata. Con questa scusa le fecero addirittura sparire una balaustra che solo la forza pubblica riuscì a recuperare prima che partisse per chissà dove. Intanto la Torre, passato il primo momento d’ira, sembrò calmarsi quasi rassegnata.
Perlomeno molti credettero che si fosse calmata, ma così non era.
Qualcosa di incredibile stava avvenendo: un po’ alla volta il suo corpo cominciò ad uscire dal terreno e a sollevarsi mentre strani rumori provenivano dall’interno. Poi cominciò a muoversi in su e in giù, quasi come se stesse facendo ginnastica.
Ed era vero!
In effetti si stava sciogliendo i muscoli!
Due enormi piedi spuntarono sul lato meridionale e fecero intuire la presenza nascosta di poderose gambe.
Il Municipio comprese immediatamente quello che stava per accadere.
Promise di intervenire seriamente sui monumenti del Centro Storico, giurò che avrebbe revocato tutte le licenze edilizie illegittime, assicurò l’abbattimento di tutti i palazzoni che chiudevano ogni prospettiva verso la pianura, garantì spazi verdi ed attrezzature per i bambini. La Torre non volle credergli. Del resto l’esperienza le aveva insegnato a diffidare delle chiacchiere elettorali dei politicanti.
Cominciò a muoversi con gran fracasso, dirigendosi verso la discesa di Armieri. Qui a causa del suo peso acquistò una notevole rincorsa che tuttavia non cercò di frenare neppure quando giunse davanti alle Poste. Anzi qui abbordò una curva in perfetto stile facendo forza sul piede destro e inclinandosi verso sinistra. Colpì con inaudita violenza il grattacielo alla via di Concacasale penetrando con il suo spigolo più resistente nelle tompagnature che non opposero alcuna resistenza. Lo scatolone si spaccò rovinosamente in due.
La Torre si rigirò nel cumulo di macerie e faticò non poco per uscire da esse cambiando direzione. Prese la rincorsa per il viale di S. Nicandro.
A Muscoriglio piegò a destra mentre, incredibile a raccontarsi, le spuntarono due enormi braccia che, staccata la merlatura dalla testa, la utilizzarono a mo’ di sega circolare per radere tutti quei palazzoni fino alla Stazione.
Percorse in su e in giù quello che una volta era un viale e dopo aver fatto una strage di palazzine si diresse inesorabilmente a salvare il Verlasce.
Il Collettivo Politico dell’antico anfiteatro costituito dalle stalle proletarie che da oltre trecento anni si erano organizzate in circolo rivoluzionario sui resti di quell’edificio prodotto dall’imperialismo romano, considerarono giunto il momento della rivoluzione e sferrarono il più potente attacco della storia venafrana contro i prodotti del capitalismo.
Le stalle si staccarono dalle fondazioni per dirigersi come un millepiedi ellittico verso Portanuova. Qui si attorcigliarono al palazzone verde per stritolarlo in pochi secondi.
Fu poi la volta degli edifici di Corso Campano e non ne fu risparmiato uno sotto lo sguardo della Torre che seguiva con intima soddisfazione tutta l’azione di guerriglia urbana. Fu anzi tentata di dirigere le operazioni verso Isernia, da dove le erano giunte voci di disordini urbanistici ancora più gravi.
Ma le emozioni della giornata erano state troppo violente ed il suo fisico logorato da secoli di incuria non avrebbe potuto sopportare un tale sforzo. Per questo, dopo aver salutato il Collettivo del Verlasce, che si assunse la responsabilità del controllo politico della nuova situazione, faticosamente risalì al Mercato per risistemarsi al suo posto. Si sentiva stanca ma soddisfatta, ma ancor più rimase meravigliata nell’assistere ad una strana manovra del Municipio.
Notò che si era spostato di qualche metro rispetto alla sua posizione originaria e che lentamente e impercettibilmente continuava a spostarsi.
Allora capì che la lezione era servita a qualcosa. Il Municipio si era reso conto delle sue malefatte e ora, rendendo alla Torre del Mercato la vista della Torre di S. Agostino, tentava di compiere il primo passo verso la pacificazione.
Non si rese conto che ormai la Torre del Mercato aveva esalato l’ultimo respiro.
Dopo 30 anni dai lamenti della Torre il municipio ancora non si è reso conto ………………
ahi noi!
lo sai, come la penso: queste sono pagine di poesia e come tutte le poesie è anche un pò profetica!
….. e lo spirito della torre si è incarnato, o meglio, la storia della torre incarna lo spirito che anima un cuore generoso…..
..e per fortuna che morì..cosìcchè i suoi occhi non potettero vedere la triste sorte della sua ancor più vecchia amica sulla montagna, quella che solevano chiamar torricella, oramai impettita in un cubo futurista di cemento armato. E non vi è dubbio alcuno che il suo cuore sarebbe stato spaccato dall’osservar lì, lontano, dove un tempo i suoi occhi di guardia scrutavano l’arrivo di eventuali perigli, il sorger di un mostro deforme che “di TUTTO l’orizzonte il guardo esclude”, il “cementificio”..
….fantastica storia!, l’ho letta tutta d’un fiato e ti dico per l’ennesima volta “bravo”!!!
Sono orgoglioso di essere tuo amico e ti rinnovo con calore la mia stima, Mimmo.