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Tra le cose molto particolari del fascione cinquecentesco del salone del Castello di Venafro vi sono certamente alcune enigmatiche composizioni araldiche che vi furono sovrapposte alla fine dell’anno 1710.
Se non fosse rimasta la testimonianza di un anonimo raccoglitore di memorie oggi non saremmo in grado di capire nulla di esse. Anche perché buona parte delle insegne è andata perduta per il semplice motivo che si tratta di pitture a tempera sovrapposte a quelle più antiche in affresco.
La lettura di uno stemma è in genere cosa abbastanza complicata e nonostante da anni io mi sia dedicato a questa scienza, sono molte le incertezze e i dubbi che mi assalgono quando cerco di trovare una regola che molto spesso è ricca di trasgressioni.
Perché l’araldica ha regole precise, ma anche molte trasgressioni.
Una regola abbastanza consolidata è quella che collega l’apposizione di uno stemma a un momento particolare della storia personale del committente. E’ il caso del blasone che fa bella mostra di sé sulla parete corta del salone sul lato orientale.
Si tratta di uno scudo partito, cioè diviso verticalmente in due parti.
La destra e la sinistra si definiscono dalla parte di chi teoricamente mantiene lo scudo, per cui si dice sinistra la parte che si trova a destra guardando e viceversa l’altra parte.
Sulla partitura di destra vi è l’insegna della famiglia di Capua che è costituita da un campo di oro alla banda di argento gemellata di nero. Dall’altra parte vi è il blasone di uno dei rami della famiglia Piccolomini che è costituito da un campo di azzurro alla croce di rosso caricata di cinque lune crescenti di argento.
Dovrebbe rappresentare la sintesi di una unione matrimoniale tra un esponente dei di Capua e una dei Piccolomini.
Ma la cosa non è così semplice perché quel matrimonio non si celebrò.
Vediamo i fatti.
Nel 1706 moriva don Domenico di Capua, titolare dei feudi di Venafro e Mignano. Erede era suo fratello don Giovanni che in quell’anno si trovava in Spagna al servizio del Duca d’Angiò. Saputo della morte del fratello, l’anno seguente 1707 decise di tornare in patria per prendere possesso di Venafro e Mignano.
Qualche anno dopo conosceva Maria Vittoria Piccolomini, di soli 15 anni, i cui genitori erano titolari del feudo di Bosco in Campania.
Alla fine dell’anno 1710, con il consenso dei genitori di lei, i due decidevano di sposarsi.
Dopo lo stento di quasi due anni continui, ed amoreggiamenti a fine di matrimonio colla figlia secondogenita, per nome la sig.ra D. Vittoria d’anni diciassette in circa, del Sig.r Principe di Valle Piccolomini, pur’alla fine di concluso matrimonio, che si pubblicò al mondo con gl’avvisi pubblici in stampa.
Il fidanzamento, dunque, era durato un paio di anni e il giovane don Giovanni si trasferì definitivamente a Venafro dove aveva deciso di celebrare le nozze con Maria Vittoria dopo aver sistemato il castello:
E perché si restò anche in detto trattato concluso di solennizzare le pompe nuzziali in questa città di Venafro, cui si portò il Sig.r Duca D. Giovanni sin dal principio del mese di novembre dell’anno scorso 1710 a rassettare il palazzo, o vogliam dire castello, abitazione per altro comoda per più d’una corte; ed avendolo già ridotto con ricchi apparati, e mobili di conto, a termine di potervi condurre la novella sposa, che ne diede l’avviso in Napoli.
La promessa di matrimonio fu formalizzata per procura il 6 dicembre 1710 nella chiesa dei Cappuccini a Napoli. Il mandato fu conferito in persona del Sig.r Principe di Leparano Muscettola, zio naturale di d.o Sig. Duca D. Giovanni si solennizzò il matrimonio suddetto.
Giovanni di Capua aveva per il proprio zio una particolare devozione, tant’è che nello stemma che sopravvive sulla parete lunga sul lato meridionale del salone ebbe cura di ricordare che i Muscettola erano suoi ascendenti. Il suo blasone, infatti, appare nel campo superiore della partitura di destra (a sinistra guardando) ed è costituito da un campo di oro con tre bande di azzurro col capo cucito di oro caricato da due uccelli neri affrontanti guardanti una stella di rosso.
La fascia mediana è occupata dal campo dei di Capua con l’ulteriore partitura che ricorda l’unione di un di Capua con una Summuccula (a questa famiglia sembra appartenere lo scudo con tre bande di rosso in campo di argento) che probabilmente si riferisce a Giovan Battista di Capua duca di Mignano e nonno di Giovanni.
Lo scudo di Giovan Battista occupa la parte centrale della composizione araldica perché, nella lunga storia dei di Capua, fu il primo a comprare il feudo di Venafro.
Lo stato di degrado della pittura non permette di capire a chi appartengano le altre insegne.
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Ma torniamo alla storia di Giovanni.
Nel medesimo momento in cui il matrimonio si formalizzava per procura a Napoli, cominciava a consumarsi un dramma a Venafro: Nel medesimo riferito giorno 6 Decembre ad ore ventuno il Sig.r Duca fu sorpreso da un’accidente che fu stimato a prima faccia febbre d’allegrezza per lo scritto matrimonio, tanto tempo defatigato, ed in detto giorno appunto ridotto al bramato fine.
L’incidente fu attribuito con molta superficialità a causa de’ trapazzi, inquietitudini di mente, e fatighe anche di corpo sofferte da esso Sig.r Duca in rassettare lo scritto suo palazzo, poiché altre al genio signorile, dal quale veniva predominato, niuna cosa parevali, che camminasse a garbo, se non passava per le sue mani, ridotto a segno di salir le scale, dalle quali cadde ben due volte, ed a porre i paramenti colle sue mani.
Dunque, la causa della febbre e delle cadute fu attribuita all’affaticamento per i lavori in corso e la gravità della situazione fu sottovalutata perché non si volle tenere conto che qualche giorno prima a Giovanni era accaduto un incidente che avrebbe dovuto far riflettere.
In realtà il duca molto probabilmente soffriva del cosiddetto “mal della luna: quandoché si vogliano andare rintracciando le nostre disavventure dalle cause secondarie, e sublunari.
L’anonimo cronista aggiunge alcuni particolari di un incidente da cui ritiene essere derivata la febbre: la riferita febbre trasse l’origine una fiera caduta sofferta da esso pochi giorni avanti, che volontariamente si dové buttare dalla sua carrozza, a causa che i cavalli aveano guadagnato il freno, e rotte le redini, quale caduta non fu da lui curata, anzi trascurata.
Fatto sta che il 7 dicembre la futura sposa partiva da Napoli accompagnata da sua madre, dal Principe Pignatelli di Monteroduni loro parente e da altre persone di conto, oltre quelle di servizio, per venire a godere il suo caro ed amato sposo.
Fecero tappa alla Taverna della Torricella di Teano dove sostarono due notti.
Lunedì 8 dicembre a mattina la comitiva riprese il viaggio per questa volta di Venafro, con speranza certa della Signorella sposa di dover incontrar per strada, e poco lungi il suo diletto Sig.r Sposo, secondo i cerimoniali aggiustati: ed ancorché la speranza da passo in passo la lusinga, pure fu priva d’incontrare una consimil soddisfazione, a causa che in detto dì, che correa il terzo dell’infermità del Duca sposo, la febbre se li rese assai più sensitiva della prima, che non gli desse forza di potersi alzare da letto, nemmeno quando se gli accostò la prima volta la Sig.ra sua Sposa. E perché i primi complimenti furono così mesti, che si fecero in letto, da prima le nozze si resero luttuose.
Il racconto continua con toni drammatici. La situazione dopo qualche giorno precipitava finché il 5 gennaio del 1711 Giovanni di Capua morì in età di anni ventisette, e giorni trentuno, e con sentimenti di vero cattolico, dal che si spera, che goda la gloria eterna in Paradiso.
Fece testamento col chiamare alla successione il fratello Giesuita per nome di D. Giulio, non peranche indiziato agl’ordini sacri, ed in defetto la sua nipote D. Beatrice, figlia del fu Sig.r D. Scipione suo fratello, e della Sig.ra Olimpia Cesarini Sforza”.
Intanto per la riferita acerba, ed inaspettata morte la Sig.ra Duchessa Sposa a 7 d.o col Sig.r Principe, e Principessa, suoi genitori, e con tutta la corte, anche del defunto consorte, fu trasportata in Bosco, stato delli sud.i Sig.ri Genitori, e conforme venne in questa Città, se ne ritornò zita, poco tempo sposa, e già vedova.
Il matrimonio, dunque, non fu mai consumato e la promessa fatta per procura a Napoli rimase tale.
Intanto lo stemma che raccontava dell’imminente unione tra Giovanni di Capua e Maria Vittoria Piccolomini era stato dipinto e, sebbene racconti una storia mai accaduta, a nessuno venne in mente di cancellarlo.
Il corpo di Giovanni fu portato nella chiesa dell’Annunziata di Venafro per esservi seppellito dopo una cerimonia alla quale partecipò un gran numero di persone.
I funerali si fecero con gran pompa e copiosità di lumi di cera, buona parte trovata nel guardarobba per li festini, a 8 detto fu sepolto nel mezzo del pavimento di d.a Chiesa in luogo di deposito, in caso, che gli eredi vogliano farvi formare lapida sepolcrale in sua memoria, ed è il primo cadavere de’ possessori di questo Stato, che abbiamo sepolto in questa Città.
Per la cronaca, nonostante si siano risparmiate le spese per le candele perché furono usate quelle destinate alla festa, la lapide non fu mai fatta e della storia del matrimonio mai avvenuto tra Giovanni e Maria Vittoria oggi non si saprebbe nulla se un anonimo cronista venafrano non ne avesse raccontato i drammatici particolari.
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Assolutamente incomprensibile il senso delle altre due composizioni araldiche. In quella sul lato corto occidentale vi si riconosce in alto sulla sinistra l’emblema di una Medici che potrebbe essere la moglie di un esponente di una famiglia di cui possiamo ricostruire l’insegna da un disegno a penna riportato dall’anonimo cronista venafrano che è un leone coronato passante da destra a sinistra, di rosso in campo d’argento.
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Nell’ultimo, sul lato lungo settentrionale, si riconosce solo la parte di destra dello scudo centrale che appartiene ai di Capua.