A volte i piccoli segni diventano importanti per ricostruire una grande storia. Il Molise ha bisogno di recuperare i significati di queste piccole tracce per restituire al suo territorio il diritto ad essere riconosciuto come una terra che ha sempre fatto parte della storia europea, sfatando il mito negativo della sua perifericità.
Un’occasione ci viene dall’esame di tre opere d’arte che io considero straordinarie nella storia della Cristianità perché contengono elementi di unicità che non si trovano in altre parti del continente.
Mi riferisco a tre rappresentazioni dell’Annunciazione che si trovano in tre luoghi distinti della regione e appartengono a tre epoche assolutamente diverse tra loro.
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La prima è l’annunciazione della Cripta di Epifanio dipinta in età prossima all’842, cioé un paio di anni prima della morte dell’abate che la commissionò.
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La seconda è quella che si trova all’estrema sinistra del registro delle monofore della Cattedrale di Termoli e che, come convengono la maggior parte degli storici, fu realizzata tra la fine del XII secolo e il trentennio del secolo successivo.
La terza è l’Annunciazione di Montorio nei Frentani che l’olandese Teodoro D’Errico consegnò al committente Ascanio di Capua nel 1581.
Nella Cripta di Epifanio, proprio di fronte alla cavità dell’abside, in asse architettonico, si sviluppa il braccio corto dell’ambiente che, nella parte centrale, si conclude in alto in forma semicircolare per l’innesto della volta a botte che contiene la figura del Cristo dell’Apocalisse. Su questa parete, dove si apre una piccola finestra, che anticamente permetteva di osservare l’interno dell’ambiente inquadrando specificamente la parte centrale con la rappresentazione degli Arcangeli, è raffigurata la scena dell’Annunciazione.
Sulla destra è la Madonna che appare sbigottita per l’improvvisa apparizione dell’Angelo Gabriele. E’ ritratta in abiti regali, in piedi davanti ad un trono riccamente decorato da perle e pietre preziose. Non si vedono i piedi, ma la posizione complessiva ci fa intuire che essa sia appena scesa dal suppedaneo e con la mano sinistra, che regge ancora due fuselli di un arcolaio, cerchi di appoggiarsi al voluminoso cuscino purpureo.
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La piccola finestra anticamente permetteva di osservare dall’aula della sovrastante chiesa l’interno dell’ambiente inquadrando specificamente la parte centrale con la rappresentazione degli Arcangeli.
La stessa finestra, vista dall’interno della cripta assume certamente un altro significato perché è posta al centro della scena dell’Annunciazione.
Apparentemente la composizione non ha nulla di particolare; anzi rispetta i canoni più classici delle annunciazioni.
L’angelo Gabriele si sta rivolgendo a Maria e indica la finestra che si interpone tra le due figure. Dalla finestra entra la luce che si materializza dalla parte opposta con la figura dell’Angelo.
Maria non ha paura dell’angelo Gabriele, ma dell’Angelo che le appare di fronte, perciò pone la mano con il palmo aperto. Come per difendersi da lui.
Insomma è atteggiata a dichiararsi poco disposta a ricevere il messaggio perché ha paura.
Chi rappresenta quell’Angelo che le è di fronte e che le è stato illuminato dalla luce indicata dall’arcangelo Gabriele?
La soluzione, dunque, sta nel capire i significati dell’angelo dell’abside. È una immagine molto particolare.
In questa cripta nulla sta per caso e non è un caso che quest’angelo centrale sembri sovrastare i quattro angeli che stanno, due a destra e due a sinistra, sui quatto angoli del braccio dell’abside.
Dunque per capire il significato dell’angelo centrale si deve capire perché sovrasta gli altri quattro.
Sembra di vedere concretizzato in uno spazio ristretto un concetto teologico cosmico.
Un concetto del quale si era fatto interprete Ambrogio Autperto nel commentare quella parte dell’Apocalisse di S. Giovanni dove si legge: Dopo di ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta. Poi vidi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare.
La descrizione di S. Giovanni corrisponde esattamente a quanto si vede in questa parte della cripta.
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Al centro dell’abside vi è un angelo che appare nella sua potenza solo perché la luce che si infila nella fenestella confessionis lo illumina venendo da Oriente.
Ha le ali aperte e regge una lunga asta crucisegnata, che è proprio quel sigillo del Dio vivente che sarà utilizzato per segnare i figli di Israele un attimo prima della devastazione universale, ma che è anche il simbolo del suo potere sugli altri angeli.
Un potere assimilabile a quello degli imperatori, tant’è che viene rappresentato all’interno di un clipeo rosso, come la loro immagine nei tribunali romani.
L’angelo centrale rappresenta un soggetto che ha il potere di un imperatore. Anche quello di giudicare, come se la cripta fosse l’interno di un tribunale.
Dunque egli rappresenta qualcuno che sta per giudicare dopo aver dato un ordine.
Ma la circostanza che la sua immagine si sia formata per effetto della luce che entra dalla fenestella confessionis, che quella luce venga indicata dall’angelo Gabriele a Maria e che Maria si spaventi per l’immagine che si forma nella calotta dell’abside porta alla conclusione logica che quell’angelo rappresenti l’Angelo-Cristo che scende sulla terra per giudicare i vivi e i morti. Proprio come aveva intuito Ambrogio Autperto.
Dunque, a S. Vincenzo troviamo l’unica rappresentazione apocalittica dell’Annunciazione dove si fondono concetti teologici, qualità artistiche e soluzioni spaziali mai ripetute nella storia dell’arte e dell’architettura.
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L’Annunciazione sulla facciata del Duomo di Termoli (Primi XIII sec.)
La seconda Annunciazione si trova sulla facciata della Cattedrale di Termoli. Avremo modo di tornare sui problemi di datazione di questo insigne monumento per il quale fino ad oggi si è avanzata timidamente l’ipotesi di un ruolo centrale nei grandi traffici tra l’Occidente e l’Oriente.
Ancora una volta, ove ci fosse bisogno di affermarlo, un punto fermo nell’analisi dei fatti storici ci viene da Montecassino dove Pietro Diacono ribadì nel suo Registrum, a proposito della drammatica fuga di Atenolfo al tempo della venuta di Enrico II a rivendicare la titolarità dell’impero carolingio in questa parte della Longobardia Minore, che per andare a Costantinopoli si partiva dal porto di Termoli.
Pietro Diacono, che trascrive Leone Ostiense, con una interpolazione sostiene che l’imbarco sia avvenuto a Termoli: atque per Sangrum ad Termulas transiens, cupiensque Constantinopolim ad imperatorem confugere mare ingressus est …
Questa importante citazione fino ad oggi sottovalutata apre uno spiraglio nella complessa vertenza sul ruolo di Termoli come punto strategico per i rapporti che i Crociati ebbero con l’oriente e la complessa vicenda della traslazione delle reliquie di S. Timoteo e di S. Basso.
Non abbiamo documenti che possano dare una soluzione definitiva alla datazione della fase costruttiva della Cattedrale di Termoli relativa alla facciata. Ma comunque si mettano le cose la composizione finale non va oltre il primo trentennio del XIII secolo.
Quale è il fatto nuovo che a noi interessa dal punto di vista iconologico e iconografico?
Per la prima volta nella storia delle rappresentazioni della scena dell’Annunciazione appare un angelo che regge nella mano sinistra un giglio.
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L’arcangelo Gabriele e il giglio sulla Cattedrale di Termoli
Non si conosce alcuna pittura o scultura di epoca precedente in cui l’arcangelo Gabriele abbia nelle mani il fiore che per il resto dei secoli sintetizzerà il concetto di verginità permanente di Maria Madre di Dio.
Pietro Cavallini solo nel 1291, cioè circa 60 anni dopo, metterà sul trono di Maria, nel grande mosaico di S. Maria in Trastevere, un vaso con il giglio.
Tutta la storia dell’arte sarà influenzata da questo piccolo particolare. Sempre per rimanere in ambito molisano si pensi alla piccola formella del 1386 che si trova sulla facciata della chiesa dell’Annunziata di Venafro che sembra ispirarsi proprio al vaso con i gigli di Cavallini.
La composizione scultorea di Termoli risponde ai criteri canonici del rapporto tra l’arcangelo Gabriele che, secondo il solito, sta sulla destra di chi guarda e l’immagine di Maria che ha in mano il fusello che ricorda la narrazione apocrifa secondo cui, quando ricevette l’annunzio, era intenta a filare.
Il giglio nelle mani di Gabriele è molto particolare perché non è il fiore naturale, ma quello araldico che poi diventerà il simbolo degli Angioini. Una questione complessa sulla quale necessariamente ritorneremo.
Pietro Cavallini 1291. S. Maria in Trastevere. Roma
I gigli di Cavallini del 1291 e i gigli di Venafro del 1386
La terza Annunciazione si trova nella chiesa dell’Assunta di Montorio.
Di quest’opera ormai conosciamo tutto, ma due elementi costituiscono una peculiarità che diventerà fondamentale per tutto il barocco e che sono una diretta conseguenza dei principi dogmatici affermati nel Concilio di Trento che si era concluso da poco.
Da una parte il ruolo esterno dell’arcangelo Gabriele che, con il suo dinamismo aereo e asessuato, è il messaggero di Dio, nel vero senso della parola.
Mai prima di Teodoro D’Errico si era visto un arcangelo che entrasse nella scena in forma così dinamica. Caravaggio nel 1581 ancora doveva venire.
Dall’altra parte il ruolo simbolico del giglio.
Il concilio di Trento (1545.1563) aveva ribadito il dogma della verginità perpetua di Maria affermata nel primo concilio lateranense del 639.
Nei gigli rappresentati da Teodoro D’Errico sembra potersi leggere un approfondimento teologico con un sottile riferimento alle conclusioni del concilio di Martino e che erano state in maniera più precisa ribadite da Paolo IV nel 1555: Beatissimam Virginem Mariam… pestitisse semper in virginitatis integritate, ante partum scilicet, in partu et perpetuo post partum.
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I gigli dell’Annunciazione di Montorio, che sono collocati in un vaso poggiato in primo piano a terra, sono formati da tre fiori che hanno una caratteristica particolare: Uno è ancora chiuso. Il secondo sta per sbocciare. Il terzo è completamente aperto.
Appare evidente che Teodoro abbia voluto richiamare in maniera esplicita le indicazioni conciliari e le considerazioni di papa Paolo IV sulla verginità di Maria, prima, durante e dopo il parto.
Commento su di uno studio dell’arch. Franco Valente
“Tre delle Annunciazioni più importanti della
storia della Cristianità si trovano nel Molise”
Una delle sorprendenti intuizioni dell’autore di questo articolo sta nell’aver osservato un insolito metodo espositivo rinvenibile in tre opere artistiche molisane con il medesimo soggetto. Queste, come sezionate attraverso un’ideale lente di ingrandimento, mostrano, tra le altre cose, la presenza per la prima volta, in composizioni a carattere religioso, dei fiori di giglio sul tema specifico dell’annunciazione a Maria da parte dell’Arcangelo Gabriele. Si tratta, nel complesso: di una serie di affreschi in una cripta; di un gruppo scultoreo in pietra; e di un quadro dipinto ad olio. Negli ultimi due si scopre quel particolare inedito dei gigli che da un punto di vista del segno strettamente artistico sembrerebbe fare della regione molisana una sorta di caposcuola del genere. Tuttavia, come si vedrà, l’importanza della scoperta non è da individuare nell’innovazione tecnica quanto proprio nell’ambito strettamente religioso; e un’importanza addirittura decisiva. Inoltre, nella serie di affreschi della cripta, quasi allo stesso modo, emerge un procedimento compositivo pressoché unico che coinvolge per la prima volta, in un rapporto simbiotico, la pittura murale e la struttura architettonica che la ospita, in relazione al fatto stesso della narrazione del soggetto dipinto, al punto da potersi dire che le mura della cripta, più che un semplice supporto, sono le vere detentrici del messaggio, forse più dell’affresco medesimo. Tutte e tre le opere, benché di epoche distinte, sono in stretta correlazione logica e si spiegano l’una con l’altra. In particolare e in ordine decrescente, le più moderne accennano quello che nell’affresco trova definitivo compimento.
La capacità e l’abilità del ricercatore sta nell’associazione di idee, nell’aver saputo cogliere e raggruppare quei preziosi dettagli che i veri artisti lasciano nei propri lavori e che costituiscono un messaggio o, per dirla meglio, il vero messaggio di un’opera. Sembrerà strano a molti tuttavia il vero senso del trascendente spesso viene compreso più dagli artisti che dalla stragrande maggioranza degli uomini di Chiesa. Laddove la sensibilità traboccante, il talento e l’immaginazione di certi autori è capace di cogliere ed esaltare concetti che travalicano le intenzioni dei committenti o degli ideatori di un lavoro (come, ad esempio, in uno dei tre casi, potrebbe essere stato quello di Ambrogio Autperto noto come l’autore di commenti sull’Apocalisse). La fantasia e soprattutto l’intuito del compositore corre all’essenza del concetto suggeritogli, sino a poter vaticinare su di esso, anche attraverso soluzioni tecniche impensabili prima. In tema di Arte religiosa poi è impossibile, per chi si accinge a lasciare ai posteri segni imperituri, di fingere qualcosa e di non legare il frutto della propria mano all’essenza dell’Idea. In questo campo non si può mentire, è un concetto intuitivo per chiunque.
Quindi il Valente nell’approfondimento di questo studio coglie le somiglianze di un certo pensiero nel più profondo della sua sostanza, mediante associazione di idee. Capisce però che sotto la scorza dell’oggettività debba nascondersi qualcosa che non si lascia leggere con facilità; che cioè il quadro generale della situazione non è completo ed il messaggio retrostante delle tre opere esaminate non trova ancora spiegazione. Si vede che c’è ma non si capisce quale sia. In definitiva si ha così, senza che possa essere altrimenti, la situazione dei classici squilli di un telefono lontano, che pur se vediamo si è nell’impossibilità di raggiungerlo ed individuare chi chiama e cosa voglia dirci.
Da punto di vista strettamente tecnico, però, la scelta dei mezzi da parte del Valente, per segnalare la cosa e rendere palpabili certi concetti, è davvero mirabile (specialmente con la rappresentazione grafica utilizzata per riprodurre l’effetto spazio-tempo voluto dall’autore della Cripta di Epifanio a San Vincenzo), dimostrando che quando si sa di cosa si parla non serve il movimento – ad esempio della televisione – per far capire le cose. Allora qualsiasi strumento anche il più semplice diviene, come per magia, un dispositivo formidabile nelle mani di colui che commenta. E la sapienza dell’esporre funge meglio dello zoom di qualsiasi telecamera; ed il poco fa ragionare più del moltissimo.
Io sono un uomo libero che nella propria vita ha studiato e vissuto personalmente sulla propria pelle, in maniera affatto indolore, certi argomenti per cui adesso, nell’accingermi – come promesso in altro post – a sviluppare ed a trarre conclusioni logiche sul merito dall’argomento qui trattato dal Valente, anche con l’apporto di specifiche conoscenze acquisite in circostanze particolari lungo decenni (e difficili da sintetizzare in questa sede), premetto che sulle questioni di carattere religioso-escatologico i miei giudizi non potranno evitare di proporre concetti in disaccordo non solo con chi, ora, ospita i miei scritti ma persino con quanto si reputa assodato in campo dogmatico: come ad esempio sulla questione se la Madonna sia potuta ascendere direttamente al cielo senza morire o il suo contrario; tema affrontato, in altre pagine, anche da questo stesso sito. Per cui, pur a costo di apparire aspro, la mia non andrà presa quale una critica, bensì come una correzione di pensiero non solo frutto di convincimenti personali, quanto dettata da una logica che solo alla fine chi legge potrà valutare se erronea oppure veritiera, e sino a che punto oggettivamente riscontrabile.
La presenza innovativa dei gigli nei lavori molisani in interesse non è un caso né rappresentano una eccezione. Essi non hanno alcuna relazione con la purezza della Vergine Maria, altrimenti l’iconografia classica della Chiesa li avrebbe segnalati e suggeriti prima e ovunque (ad esempio sin dal concilio lateranense del 649). La peculiarità di quel fatto sta che essi compaiono nel Sannio prima che altrove, per cui si vede che lì trovano una propria collocazione funzionale specifica. Su questo c’è da notare come in realtà il Molise sia tutto gigli. Essi sono rappresentati ovunque nella regione, e la purezza che il fiore implicitamente suggerisce si ricollega in tutt’altro modo alla Divina Madre. Il loro significato dista anni-luce da certi pur consolidati dogmi (non per questo non erronei). Essi fanno riferimento alla Francia come nazione: sia storicamente che da un punto di vista araldico; e l’origine meno risalente del Molise è per intero francese. Diciamo pure che: la sua Storia, almeno dal secolo VII in poi, è tutta Francia. Ad iniziare dai Carolingi, passando ai Normanni che gli diedero il nome (da Moulins-la-Marche, paese da cui prima la contea di Bojano e poi l’intera regione si chiamarono – dal casato dell’avventuriero Rodolfo de Molisio, o des Moulins, poco dopo l’anno Mille, al tempo di Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo – rimanendo sempre come contea o contado quasi sino ai giorni nostri), alla famiglia dei Montfort a Campobasso e agli Angioini, per finire al noto e già citato Ambrogio Autperto Provenzale che si fece benedettino, lasciando alle spalle una brillante carriera politica e di potere, preferendo venire a vivere una vita mistica a San Vincenzo al Volturno. E da ultimo il casato dei Borboni verso i quali i Molisani mostrarono sempre una affezione particolare. Ma altri infiniti esempi potrebbero farsi, il più eclatante dei quali ancora non è il momento di menzionarlo qui.
Premesso che il valore di “Stato senza capitale” – fu la connotazione saliente delle popolazioni stanziate nella regione Molise in epoche arcaiche, con uno stile di vita sobrio e del tutto peculiare (che nonostante tutto, persino oggi, ancora resiste), segnalo un’ulteriore intuizione, quasi contemporanea, di Franco Valente nell’aver deciso di scrivere un romanzo in tema, dal titolo certamente allusivo: “Incipit Apocalypsis”.
Così, come si capirà in seguito: la mistica di Autperto ed altri; l’insolita concezione della Cripta di Epifanio ed altri simboli; le due altre Annunciazioni; e persino il titolo di quel romanzo; sono in strettissima correlazione con la tradizione regionale, sembrando che per la fedeltà ai valori di semplicità e di non-violenza delle antiche genti, pur indomite come sono stati gli abitanti del Sannio storico, la regione abbia un qualche compito in ambito spirituale. Insomma, che da quelle parti ci si aspetti che avvenga qualcosa, o che venga qualcuno.
A questo punto, a proposito di antiche etnie, se chiedessi ai lettori quale potrebbe essere quel popolo che, con la sua lunghissima permanenza (millenaria) ai vertici del potere del mondo e che, quindi, con la sua Storia, abbia marcato la vita prima dell’Occidente e poi dell’intero Pianeta, sono certo che, con minima possibilità di errore, la mente correrebbe direttamente ad individuare quel popolo e, per di più, senza associare alla relativa civiltà alcunché di negativo.
Ma se ora io aggiungessi che quel popolo promanava da una città dove si andava allo stadio per vedere gente data in pasto alle fiere, godendone; o ad assistere a spettacoli dove degli uomini erano costretti ad sopprimersi vicendevolmente per il piacere altrui; allora le cose cambiano e s’intenderebbe perfettamente di chi sto parlando. Cosicché alcune questioni scolastiche irrisolte, ritenute marginalità trascurabili di una grande Storia, orgoglio nazionale, si tradurrebbero in immagini di grida bestiali e sorrisi idioti, membra sudate e mani plaudenti che grondano sangue, di fronte all’ultimo straziante respiro di innocenti sacrificati.
Se, inoltre, aggiungessi che in quella città, in spregio della povertà e della fame di milioni di persone, si mangiavano cibi raffinati per poi piantarsi due dita in gola e rigurgitare quei cibi, per tornare a provare di nuovo il piacere vizioso di mangiare, la cosa si aggrava. E forse solo su queste riflessioni qualcuno comincerebbe a dissociarsi da certe aberrazioni, riflettendo meglio su quella città che sulla guerra, la sopraffazione e la rapina, fondò il suo mito, marchiando le coscienze di generazioni, contemporanee e future, di miliardi di esseri con una sorta di feticismo per tutto ciò che sa di armi, e di potere militaresco. Feticismo che sottintende il mito della violenza.
E la dissociazione aumenterebbe, allora, ricordando come l’attenzione maniacale per l’organizzazione dello Stato di quella città, condotta con fredda metodicità, divenne burocrazia fatta scienza, fiscalità abnorme, con l’ossessione dei censimenti e di ogni altro utile pretesto per giungere ad un controllo capillare, massivo, ed ossessivo di tutti in ogni aspetto della vita. Con questo e per via di una religiosità quasi inesistente ed una propensione a voler vincere le guerre con qualsiasi mezzo, da lì a poco, nacque la segretezza fatta dogma, i cui esiti disastrosi sono giunti intatti sino a noi oggi.
Potrei continuare con la descrizione di ogni difetto della capitale del vizio e della corruzione, là dove la spoliazione feroce delle province insieme alla la passione per le crocifissioni, singole e di massa, costituiva un altro degli sport nazionali. Potendo anche porre l’accento sulla pochezza di quello che viene considerato vanto e merito propri della città cosiddetta “Patria del Diritto”, per dire che quel popolo investì il massimo del proprio ingegno solo nella ricerca dei più raffinati strumenti in difesa della proprietà privata (persino del corpo fisico altrui) e del denaro, traducendo in norme null’altro che il diritto del più forte. Bastando l’aver studiato un po’ tale materia per accorgersene.
Se qualcuno nutrisse dubbi su quali strascichi sinistri abbia potuto proiettare ovunque una simile concezione del mondo, si potrà osservare come l’attuale società sia rimasta profondamente impregnata di quella “cultura”, sia nelle forme che nella sostanza. Nel primo caso, solo per fare un esempio, quando ci si parla con i gesti delle mani, e si alza o si abbassa il dito pollice di un pugno chiuso noi intendiamo approvare o disapprovare qualcuno o qualcosa; e lì non stiamo imitando semplicemente gli Americani, bensì i Romani di qualche millennio prima che decretavano la morte, o la salvezza, di un uomo in base a simpatie o capricci con il pollice (verso, o meno). Oppure, parlando di sostanza: nella semplice constatazione di come le moderne nazioni abbiano accolto il segreto di Stato ed il connesso ombrello dei così detti servizi “di sicurezza” – sotto il pretesto dei quali si nascondono i peggiori delitti contro l’Umanità, impossibilitati ad emergere per sempre – senza colpo ferire o, meglio detto, senza nulla obiettare; come se fosse una cosa normale (dimenticando il presupposto cardine di quei sistemi che, fondati proprio sulla trasparenza, non dovrebbero tollerare alcunché di oscuro e segreto, a costo della propria sussistenza). E questo persino in tempi di pace; posto che detti inutili segreti possano essere appena tollerati per fatti di guerra. E l’origine di tali incomprensibili istituti è più che nota.
Superfluo ricordare qui come certe situazioni e certi metodi siano alla base dei fascismi che, attraverso il sistema della violenza occulta o manifesta (soprattutto la prima, nonostante le apparenze), eternamente tentano di riappropriarsi del potere, spesso riuscendoci. Regimi che, in quanto ad iconografia e a parafernali, sempre ai Romani si sono ispirati. E sempre si ispireranno.
Ora però, spostandoci su di un altro piano, con tutto questo si capisce che, qualora esistesse un Dio d’Amore, quella città – che per auto-definizione è nota come la città degli uomini-lupo, perché discendenti da due gemelli allattati da una lupa – come minimo la disapproverebbe. Qualora, poi, quel Dio fosse esasperato per tanta feroce crudeltà, contraria a qualsiasi divina pietà – anche solo per quella sterile pretesa di proclamarsi eterna – quella città d’abominio senz’altro avrebbe dovuto distruggerla.
Nella religione più prossima al mondo Occidentale è proprio così: un simile Dio è conosciuto ma avendo quella certa “civiltà” fatto sì che, con il proprio esecrabile comportamento, quello non solo fosse escluso dalla centralità delle cose bensì che fosse addirittura deriso ed umiliato, è certo per chi ci crede che Egli certamente lo avrebbe fatto. Era solo una questione di tempo e la pazienza divina non poteva essere illimitata. Del resto ogni cosa che sarebbe dovuta accadere era stata annunciata da un tempo immemorabile, e ritardata solo in previsione di una inversione di tendenza vicino al pentimento. Che mai vi è stato.
È scritto dappertutto che l’attuale concezione del mondo, sorta dalla nuova Babele, sarebbe dovuta sparire dalla faccia della Terra.
Ora poiché colui che viene definito come la causa non causata, cioè Dio, ha sottoposto la propria creazione alle leggi matematiche, della fisica e della altre scienze – intuitivamente comprese dall’Uomo -, è evidente che per per manifestare la propria esistenza ed il proprio volere Egli non abbia inteso derogare a tali regole con effetti speciali. L’unica via logica, in considerazione dell’autonomia lasciata ad ogni uomo, sul credere o non credere (attraverso il libero arbitrio), non avrebbe potuto manifestarsi che attraverso fenomeni naturalissimi. Si pensi, in caso contrario, agli uomini preistorici e a che effetto avrebbero potuto trarne essi da angeli svolazzanti, o da un Dio che si manifestava su carri dorati di fuoco ed altri effetti definibili palesemente straordinari. Tutti sin da allora avrebbero creduto senza alcuna prova o dimostrazione di sincera fedeltà. L’esistenza divina, invece, si sarebbe dovuta dichiarare a piccoli passi, attraverso uno sviluppo per gradi, seguendo l’evoluzione umana. Dapprima solo tramite il timore dei semplici elementi naturali quali il fuoco, i tuoni, i fulmini e simili, poi con l’osservazione degli effetti prodotti, sugli esseri viventi, dagli Astri – da parte di pastori per primi – e la conseguente scoperta dell’Astrologia, associata alle regole dell’Astronomia (fattore divino e scientifico che procedevano affiancati: religione embrionale e scienza). Poi il politeismo, che ancora mostrava residuali vincoli con gli Astri; poi ancora l’illuminazione delle coscienze dei profeti e l’avvento del Dio unico. A quel punto l’Uomo, giunto ad una maturazione e ad una sensibilitàda tali da poter comprendere certi concetti, ecco che il vero Dio invia suo figlio a predicare cose nuove come l’Amore universale. Sotto questo aspetto non vi è alcun contrasto tra teorie Darviniste e religione, oppure tra questa e le tesi astronomiche Galileane. In realtà i veri uomini di Chiesa (la parte buona di essa) lo sapevano perfettamente, purtroppo l’altra parte era, ed ancora è pervasa dalle Forze del Male di infiniti massoni che spesso ne determinano le scelte.
Infatti, fingendo di preservare Vangelo, fedeli dall’Inferno, e il buon Gesù, con l’Inquisizione gli eredi della grande città, di cui sopra, davano sfogo ad ogni sanguinaria violenza (e poi tutta l’organizzazione della Chiesa cattolica, quasi incredibile a credersi, è strutturata alla stessa maniera dell’organizzazione statuale di Roma).
Anche in quel caso però non avrebbe potuto o voluto, l’Essere supremo, servirsi degli effetti speciali di cui ho detto, per cui quel suo figlio lo fece nascere semplicemente come uomo. Sbagliò anche lì la religione cattolica ad insistere troppo sui dogmi da accettare a scatola chiusa, giacché quei dogmi non venivano compresi neppure da chi volle imporli o avrebbe dovuto spiegarli. Di contro, per ogni cosa Dio si serve della Natura parlando attraverso di essa (di cui la deroga, pur possibile, resta sempre l’eccezione. Non vi è alcun bisogno di “mirocaleggiare” tanto: la prova dell’esistenza di un Creatore assoluto è in sé: basta, dandosi un’occhiata tutt’intorno, rispondersi alla domanda: “Da dove viene tutto ciò?”); Egli conosce la logica e sa che gli uomini la comprendono per cui si manifesta, pressoché sempre, attraverso di essa. Quando certi fatti sono compiuti, e solo allora, è dato afferrare il suo disegno, tal ché chi non saprà, o non vorrà, vedere dietro certi fatti ed avvenimenti storici la sua mano divina, vorrà dire che sarà votato al Male.
Ora, si dà il caso che detto Male sia una cosa concreta con potere di agire sulla Terra attraverso strumenti fisici: come se avesse compreso, con la scienza, gli elementi tecnici dei fenomeni naturali, e dei quali se ne servisse materialmente (ma che, tuttavia, rimangono sempre trucchi), per sviare gli uomini ed indurli all’odio contro Dio, per la distruzione di quanto da Egli creato (includendoci l’Uomo, e lo stesso Pianeta). E in questo gioco Dio non entra mai direttamente: avverte – rivela – di quei possibili trucchi, con annunci enigmatici interpretabili solo da alcuni, con funzione di messaggeri per altri soggetti determinati. Ad esempio l’Angelo Gabriele, che preannuncia la nascita di Gesù a Maria, era un uomo, ed anche Gesù era un uomo. Tuttavia costoro sono nel contempo emanazione del divino. Il secondo addirittura il Dio Vivente sulla Terra. Essi sono simboli concreti – con una propria storia umana alle spalle, spesso vivendo nascosti e a volte estinguendo ogni traccia del proprio terreno passaggio – ed allo stesso tempo entità soprannaturali rappresentanti del Bene e perciò manifestazioni dell’Amore infinito dell’Entità Assoluta.
Se proprio vogliamo ragionare sensatamente dobbiamo convenire che, potenzialmente, ogni uomo è formato di quella stessa doppia essenza (Gesù stesso insegnò a tutti di pregare il Signore chiamandolo Padre… nostro, per cui ognuno di noi ne è figlio, a patto di non rinnegarlo), i primi si differenziano solo per aver un compito, una missione esemplificativa, rivolta a tutti gli altri e, nello specifico, combattere il Male. Del resto a chiunque del gran numero dei restanti, fornito del libero arbitrio, è dato manifestare la propria adesione alla missione trascendente di cui sto parlando, dimostrandosi apertamente come partecipe di quella doppia natura. E da qui i Santi.
Ora il simbolo di bontà del Dio vivente fu inviato fra gli ultimi (i poveri, gli oppressi, gli umiliati, gli “svantaggiati, etc.): cosa che rappresenta semplicemente ciò che propriamente Dio è, e cosa egli pretenda dagli umani: la pietà, la comprensione e l’amore fraterno. E questo, al di là di tanti astratti proclami, è l’unico dogma rivolto a chiunque. Ogni verità e semplice; e del resto essa viene sempre negata ai potenti ma rivelata agli umili e, più propriamente… ai semplici. Il Signore non pretende altro.
Da ciò ne consegue che, contrariamente a quanto si crede, la salvezza non è solo nella Chiesa. Qualcuno, ad esempio, può scientemente pensare che quella comunità – mettiamo: una popolazione rimasta al di fuori del mondo conosciuto – che pur per ragioni oggettive non potrebbe essere raggiunta dalla predicazione evangelica, non possa presentare al proprio interno anche manifestazioni del corretto operato voluto dal Signore, con comportamenti consoni? Il popolo di Dio comprende chiunque lo ami rispettando le creature che egli predilige (in fondo è una questione di giustizia riequilibrativa verso gli svantaggiati). La cosa grave sarebbe un rifiuto per chi, pur a conoscenza dei principi religiosi in argomento, si rifiutasse di aderirvi. Comunità cristiana non è altro che un aderire alla fratellanza umana: fare il bene, senza calcoli, ovunque ci si trovi. E Chiesa non significa altro che Dio; non associazione mediante tessere. Teoricamente non sarebbe necessario alcun battesimo per entrarci, vi si fa parte per meriti acquisiti sul campo, implicitamente attraverso il comportamento, e basta. Resta chiaro che richiedere spontaneamente il battesimo e farlo pubblicamente rientra, anche se in forma minore, in quella dimostrazione della doppia natura umana e divina, per cui si accetta, spontaneamente e di cuore, di rappresentare un esempio per altri, come simbologia invogliante (e poi diviene bello riunirsi fra fratelli); per cui quel semplice gesto diviene missione. Il bambino non battezzato e che muore non va all’inferno. Non potrebbe mai andarci. Il Dio oltre ad essere buono è soprattutto giusto. I genitori che se lo sono visti togliere prematuramente, se veramente credenti, se lo rivedranno restituire nell’altra vita; altrimenti nei verdi pascoli del cielo ci andrà solo lui. E il Male contro quello – battezzato o non battezzato – non potrebbe, né può, propriamente nulla. Ecco, in questo consiste la logica divina di cui ho parlato, capace di rendere inutili i dogmi. È ferrea eppure così umana.
Se agli inviati, ai profeti, ed ai santi, è dato di combattere il Male, accade che mentre tanto se ne parla in effetti non si capisce in che modo possa avvenire che qualcuno comprenda di avere una specifica missione soprannaturale, e cosa fare in concreto in quel caso. In effetti, paradossalmente, nessuno afferra cosa sia lo Spirito Santo (e alcuni, scioccamente interpretando un passo dell’evangelista Giovanni, crede persino che possa essere una persona fisica). Esso non è altri che un benevolo pensiero umano che avvolge chi lo sceglie, suggerendogli il da farsi. Ecco semplicemente spiegata, insieme al Figlio, la santa Trinità. In questo mondo alla causa primigenia – il Padre – si aggiunge un pensiero umano che, poiché corretto, è anche Spirito divino. Una parte che seppure separata di Dio procede in simbiosi con esso. In sintesi, null’altro che una ispirazione insindacabile basata sulla buona fede del soggetto. In mancanza di ciò egli si esclude da solo. L’esempio che semplifica il concetto è dato dalla corda di una chitarra che, entrando in risonanza con un diapason, si mette a suonare da sola anche senza essere pizzicata; a patto che sia ben accordata. Ecco, lo Spirito Santo fa procedere su di un’onda certa ma in modo inconsapevole.
Questo nella rappresentazione del mondo: cioè nell’Universo da noi percepibile, giacché al di sopra ed al di fuori di esso, prima e dopo di esso, è chiaro che il Dio è unico, mentre solamente per farsi intendere agli umani si mostra Trino. Altrimenti si dovrebbe servire di quegli “effetti mirabolanti” che annullerebbero la libertà nella scelta (di una parte precisa con cui stare e con cui lottare).
Adesso che nessuno si scandalizzi per aver detto che il Cristo era propriamente un uomo. La cosa grave consta nel non credere che egli fosse Dio (in quanto di lui figlio) e che, nella rappresentazione voluta dal Padre, tutti gli uomini indicati da Gesù sono concretamente Dio, per cui fare del male a quegli esseri indicati – gli ultimi – equivale a farlo allo stesso Padreterno.
Se vogliamo, la raccomandazione lasciata da Gesù e del suo costante ritorno, sotto forma di povero od oppresso che bussa alla nostra porta, non significa che quello è una rappresentazione del figlio di Dio, bensì che sia proprio Lui; in persona. E da qui la riflessione che Egli, letteralmente, risorga ogni ora lasciando intendere con una simile assiduità quanto debbano contare, nella scala dei valori del Cielo, quei soggetti e… quale gelo nel non aprire quella porta!
In ogni cosa indicata dal divino è sottintesa la chiarezza, la bontà, la mitezza ma, soprattutto, la semplicità. È per questo che egli volle essere rappresentato come un Agnello.
Ora, se ci si fa caso, nella rappresentazione del Bene che lega la trascendenza all’ambito umano emerge sempre un mondo agreste legato alla pastorizia. Infatti, furono pastori i primi Caldei che intuirono la correlazione tra gli Astri ed il mondo sensibile: ovvero la scoperta dell’Astrologia che costituì la prima vera rivelazione della divinità sulla Terra. E questo proprio dall’osservazione dell’influsso esercitato dalle Stelle sui propri animali che, per l’appunto, erano ovini. Il Giudaismo ed il Cristianesimo hanno attinto a piene mani da quella simbologia che tuttora, dopo millenni, rimane invariata: il Dio è sempre rappresentato risiedere nell’alto dei cieli. Detto solo di passaggio ma gli Ellenici, maestri nell’edificazione di luoghi simmetrici, alle origini, dedicati alle rappresentazioni sacre, definirono tali edifici Teatri, nome nella cui radice è presente il significato implicito di Dio – che in quasi tutte le lingue del mondo suona sempre uguale come: Teo, Deo, Titi, Tdius e simili -. Ebbene, quei luoghi simmetrici e all’aperto presentavano sempre la forma di una volta celeste rigirata, come l’interno di una cupola vista allo specchio. Insomma, tutti capiscono che Egli risieda e promani da lì, in alto (ma, intanto, i primi ad accorgersene furono guardiani di greggi).
Le varie apparizioni Mariane – quelle vere – furono riservate quasi esclusivamente a pastorelli, mentre ciò che connota specificamente il messaggio cristiano si concretizza nell’immagine del Buon pastore e, principalmente, nel simbolo dell’Agnello.
In questo modo, con certezza, è da ritenere che il divino, sin dagli albori della vicenda umana, abbia voluto indicare come le Forze del Bene non potessero che identificarsi con la semplicità agreste della vita dei pastori. Come dire che la salvezza non sarebbe potuta scaturire che da quel mondo.
Il rafforzativo del concetto è tutto nella spiegazione, nel contempo allegorica e reale, del contrasto tra pastori e belve. Così avviene che, nello scenario concreto della Storia, l’identificazione della verità voluta dal Divino possa far comprendere, con ovvia naturalezza, chi costituisca il pericolo maggiore per i pastori e per il loro simbolo: cioè l’Agnello, il figlio i Dio. E quelli non possono essere rintracciati che fra i LUPI, i figli della lupa e ogni altro loro erede. È una narrazione che procede per contrasto e per opposti.
Con ciò si comprende la missione storica dei popoli dell’antico Sannio che, con tutte le loro forze, si opposero e sempre si opporranno ad ogni costrutto falso ed innaturale di genti voraci.
Nella Storia di Roma risiede gran parte del nocciolo della questione. Il resto proviene dalla Francia la cui vicenda viene ad intersecarsi e confluire in quella dei Sanniti. C’è davvero un eterno ritorno negli eventi della Storia e questioni irrisolte, di carattere generale, Dio vuole che siano chiarite. Anche dopo secoli, se non addirittura dopo millenni.
In effetti, all’origine della fondazione dell’urbe fatale pare che, sul Campidoglio, mentre si scavavano le fondamenta per la costruzione del tempio di Giove, venne rinvenuta una testa umana mozzata ma intatta, che presentava sulla fronte la scritta del nome del decapitato: “Tolo, o Tholus” (fonti: Arnobio Africano – Tito Livio – Dione – Dionigi di Alicarnasso). Si trattava di un membro della famiglia dei Tulli, di Vulci in Etruria, quindi con sangue di Re. Subito i Romani chiamarono gli aruspici per decifrare il significato del prodigio, e costoro affermarono che la città sarebbe divenuta caput-mundi, ovvero alla testa dei destini e dell’identità del mondo. Quando poi gli si chiese dove andava collocato quel capo, quei sacerdoti vollero che la testa di Tolo andasse posta là dove diceva la situazione stessa. Vale a dire in caput-toli: cioè “Il capo di Tolo va messa in capite toli”, precisamente nella tegola centrale del tempio che funge da raccordo fra i due piani inclinati nella sommità del tetto. Tempio e Colle portano ancora oggi lo stesso nome di quel ritrovamento, del quale molto e senza ragione si rallegrarono i Romani di allora, ritenendolo un felice presagio. Non sapevano essi, però, quanto peso avrebbe avuto quella testa incombente sul capo di tutta la città, né valutarono la circostanza della predisposizione degli aruspici Etruschi al gioco dei doppi significati e dei doppi sensi insite nelle parole di quell’arte divinatoria. Sottovalutando anche il fatto che la più tipica e considerata divinità della città “eterna” in realtà era proprio il dio Termine. Cosa che, con l’aggravante della vicenda del Campidoglio non sembrava alludere ad alcunché di positivo: un grande “decollo” con termine fragoroso in un tempo stabilito.
Nella Cripta di Epifanio, alle sorgenti del fiume Volturno, e nelle due altre opere menzionate dal Valente vi sono molti indizi della risoluzione di quelle questioni che, del resto, sono ripetute in decine e decine di libri e di testi, non solo sacri, ma le raffigurazioni del Molise – compresi i gigli della formella dell’Annunziata di Venafro – stanno ad indicare molto di più: ovvero che quello era il popolo, e che quello era proprio il luogo.
Come detto, i gigli, che sono propriamente simboli della monarchia francese, poco hanno a che vedere con la purezza della Vergine. E neppure Autperto voleva dire che il Cristo sarebbe tornato per concludere il Giudizio universale; per quello c’era e c’è ancora molto tempo, l’Apocalisse precede di molto il Giudizio. Al contrario, i gigli stanno ad indicare a Maria l’avvento di un giustiziere agghiacciante per le forze del Male. Un personaggio che avrebbe vendicato il Cristo, così come inteso in tutto il mio racconto (compresa la spiegazione su come Dio agisca attraverso persone umane reali, le quali, contemporaneamente, sono anche veri e propri angeli). Quindi un riscatto non solo dell’uomo di Nazareth, bensì di tutti coloro che Egli rappresenta, e che tale vendicatore, quindi, benché guidato dal Cielo, non discenderà affatto da lì. La lunga mano di Dio è come se lo avesse preparato da tempo a tale compito: si tratta di una rivalsa attraverso avvenimenti epici, di Epopee di interi popoli. Una questione per il ritorno di un re da regolarsi tra umani.
Dio, scardinato da ogni centralità, per i sanguinari lupi e i discendenti di quelli – che con il proprio insano agire hanno corrotto il mondo, facendone quel che meglio gli è parso, gettando le basi attraverso la propria stolta filosofia per inondarlo di ogni illusoria falsità – gli ha preparato una graticola spaventosa, partendo proprio dalla vendetta degli eredi dei loro più agguerriti nemici di un tempo. Maria, all’annunciazione di Gabriele della Cripta di Epifanio, si spaventa per tutto quello dovrà avvenire e quel che dovrà fare quell’uomo castigo di Dio. Ella è ancora donna, altrimenti non si spaventerebbe affatto, così pure nessuno si spaventerebbe per l’annuncio di un Giudizio universale di cui non si conosce la data, né è dato ad alcuno conoscere. La data dell’avvento del vendicatore è meno incerta e, per una volta soltanto, con egli, la giustizia sarà palese sulla Terra e questa volta gli uomini saranno costretti ad obbedire, dopo una tale manifestazione del Dio vivente.
I Francesi, che da oltre un paio di secoli si attendono giustizia per il ritorno di un loro re ingiustamente decapitato – per eventi che sconvolsero l’ordine naturale delle cose attraverso promesse irrealizzabili – la se lo aspettavano dalle loro parti ma il Padreterno, pur accogliendo il loro auspicio, ha voluto un’altra cosa. Così ha fatto in modo di incrociare due Storie.
Ogni qual cosa di terrificante che dovrà avvenire, in conseguenza di certi fatti, non sarà tanto per mano di Dio, quanto per quella della reazione del suo avversario (che opererà materialmente attraverso mezzi scientifici spaventosi condotti da adepti umani altrettanto spaventosi) una volta che quello si vedrà scoperto, e per la controreazione che quell’uomo atteso dovrà operare per chiudere definitivamente una lunghissima partita. Grande sarà, allora, la sorpresa di molti nel vedere che, prima della grande lotta, ciò che credevano morto e sepolto da settanta anni, tornerà a rivivere di colpo, e cosa farà questa volta per sopravvivere – anche se però senza speranza – dopo aver ordito una lunga e paziente congiura (che neppure un convinto sostenitore delle teorie del complotto più ardito avrebbe mai osato immaginare) passata sotto gli occhi di tutti senza che alcuno se ne accorgesse.
Il Gabriele del gruppo scultoreo del duomo di Termoli, di cui parla nel suo articolo Valente, avvisa la Divina Madre solo dell’avvento di un Giglio, all’Angelo interessa comunicare un fatto greve, non potendosi perdere in omaggi e complimenti alla Madonna; mentre quello del dipinto ad olio di Teodoro D’Errico del 1581, sempre dello stesso articolo, assicura: nascita, incubazione e fioritura, di un personaggio sconosciuto, che si palesa terribile nella Cripta di Epifanio, dove è raffigurato come un imperatore che giudica e condanna. Egli non è Gesù ma uno che verrà a rimettere Cristo al centro del mondo proclamandolo Re; e farà quelle cose con il buon esempio e attraverso una guerra come non se n’è mai vista di uguali. Le ali stanno ad indicare la sua origine divina come un tempo erano intesi i Re francesi, ma egli è un uomo con i segni del potere materiale. Tutti questi concetti e nozioni erano già noti sin dal III – IV secolo dalla morte di Cristo (es.; Sant’Agostino nel secolo IV; o il Vescovo di Saint Rémi, a Reims, nell’anno 496, alla vigilia del battesimo di Re Clodoveo; etc.) ma sottovalutati, e ci pensò l’Alighieri, nel medioevo, a mettere bene in chiaro la vicenda. Quando, ad esempio, nel Canto XVIII del Paradiso della sua opera maggiore, definita DIVINA, egli vede impressi nel cielo i simboli di un’Aquila, di un Giglio, e della lettera M, la quale ultima ha due significati, uno dei quali sta per monarchia: ritorno della monarchia.
In effetti nella Cripta molisana di Epifanio si rende palese tutto ciò attraverso il particolare delle due AQUILE presenti nell’affresco, che definiscono il ruolo della regione designata per ciò che avverrà.
Due aquile: una abusiva l’altra autoctona e delle due ne rimarrà solo una.
Ovvero il discrimine temporale dell’inizio e della fine di tutta questa storiografia per chi vorrà crederci. E sulla vicenda, non solo Tito Livio – del suo libro X, di “Ab urbe condita” – dovrebbe saperne qualcosa. Anche un altro uomo-Angelo, proveniente dalla Provenza di nome Michele, ha avuto modo di parlarne abbondantemente; e nello specificare il concetto, tra le tante cose, ha avuto modo anche di aggiungere…
C.X-Q.65
O vaste Rome ta ruyne s’approche,
Non de tes murs, de ton sang & substance.
L’aspre par lettres fera si horrible coche,
Fer pointu mis à tous iusques au manche.
Detto questo, che stiano allegri i Molisani e gli altri Sanniti che, pur se tra stenti e fatti epocali orrendi che dovranno ancora avvenire, Dio li ha prescelti riservando ad essi un radioso futuro. Sarà l’Era della Luce.